Ben Lord, gestore di M&G, invita a “munirsi di estintori, prima che scoppi l’incendio (inflazione)”. Oggi gli investitori non percepiscono questo pericolo e sottovalutano il fatto che le banche centrali hanno messo in atto misure di stimolo senza precedenti, mostrando più tolleranza nei confronti della crescita del costo della vita. Inoltre, non sono da escludere le ingerenze dei governi, che attraverso la politica monetaria possono ridurre il peso del debito pubblico.
La Bank of Japan, ad esempio, ha recentemente accettato di porre il target d’inflazione al 2%, dal precendente 1%, piegandosi alle pressioni governative per porre fine alla deflazione. In Eurolandia, il tasso annuale è del 2,2% (a dicembre 2012), in discesa rispetto al 3% dei 12 mesi precedenti, ma il dato è influenzato dalla situazione recessiva (lo stesso vale per l’Italia). Negli Stati Uniti, l’incremento è stato dell’1,7% (anno/anno) e la Federal Reserve ha detto che non è un fattore che desterà preoccupazioni nel 2013. Tuttavia, il guru delle obbligazioni, Bill Gross (Pimco), ha lanciato l’allarme per il futuro, considerato che il debito pubblico è “praticamente a costo zero”, grazie alle operazioni messe in atto dalle banche centrali.
Acque troppo tranquille
I dati rassicuranti di oggi, dunque, fanno sì che gli investitori sottovalutino il rischio di inflazione. Raramente, dice Lord, i mercati si accorgono prima del pericolo, ragion per cui gli strumenti di protezione come le obbligazioni indicizzate appaiono a buon prezzo.
Gli effetti più distruttivi per chi sottovaluta l’inflazione, però, non sono nel breve, quanto sui risparmi di lungo periodo, in particolare quelli previdenziali. Il terzo osservatorio Anima-Eurisko rivela che le famiglie italiane continuano a tagliare le spese superflue e cercano di mettere da parte qualcosa. Sono tiepidi, tuttavia, nei confronti degli investimenti ed è forte la tentazione di tenere i soldi sul conto corrente o in strumenti di liquidità. Manca una progettualità di lungo periodo, soprattutto in relazione alla questione previdenziale.
Se la pensione non basta
Come spiega Christine Benz, direttore della finanza personale di Morningstar, l’inflazione può distruggere la pensione se non è pianificata in anticipo. Per un trentenne, che ha davanti quasi quarant’anni di vita lavorativa, una perdita del potere di acquisto con un tasso del 2 o 3% l’anno può apparire un pericolo di poco conto. Quello che viene sottovalutato è l’effetto composto su molti anni.
Benz esemplifica con un cinquantenne che stima di necessitare l’80% del suo attuale reddito (100 mila dollari), quando si ritirerà a 67 anni (considerando di vivere fino a 95). Assumendo un rendimento del 5% dei suoi investimenti (e nessuna pensione pubblica), potrebbe pensare che gli basti accumulare in tutto 1,3 milioni di dollari. In realtà ne servono molti di più, se si mette in conto l’inflazione. Negli Stati Uniti, il tasso medio storico è del 3,5%, per cui la somma lievita a 3,3 milioni. Se si ferma a 1,3 milioni avrà risorse solo fino a 76 anni. Questo perché quello che oggi compra con 80 mila dollari, gli costerà 140 mila dopo 17 anni (ossia a 67).
False sicurezze
Per non cadere nella trappola della falsa sicurezza del risparmio previdenziale che non tiene conto dell’inflazione, Benz suggerisce di considerare tutti i fattori che incidono sulla definizione del livello adeguato di benessere post-vita lavorativa, oltre al caro-vita, l’ammontare delle pensione pubblica, un realistico tasso di rendimento degli investimenti e la tassazione. Esistono poi fattori personali, che possono accentuare gli effetti dell’inflazione, come ad esempio l’aumento delle spese mediche con l’avanzare dell’età. E’ importante assicurarsi della misura in cui gli strumenti previdenziali coprono dal caro-vita (l’assegno dell’Inps ne tiene conto), non necessariamente le altre forme complementari. Infine, un’ultima annotazione, le cedole dei titoli di stato sono talmente basse che non danno che una falsa sicurezza.
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