Capire quanto si percepirà di pensione, una volta smesso di lavorare, è fondamentale per poter affrontare il futuro con consapevolezza e serenità. La regola generale ci dice che se si vuole mantenere lo stesso stile di vita anche durante la fase di pensionamento bisogna avere un cosiddetto tasso di sostituzione pari all’80% (con questo termine si intende il rapporto definito in termini percentuali tra la prima rendita pensionistica e l’ultimo reddito di un lavoratore). La percentuale mette in rapporto due valori definendone la proporzione.
L’assegno pubblico non basterà
Purtroppo, le prospettive sono piuttosto chiare, seppur sconfortanti. In futuro, l’assegno dell’Inps non arriverà all’80% dell’ultimo stipendio lavorativo. A dirlo è la stessa Ragioneria di Stato, che annualmente redige un rapporto illustrativo delle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario. Tali tendenze vengono analizzate sulla base di previsioni elaborate con propri modelli in funzione di differenti scenari definiti in ambito nazionale ed europeo.
Per quanto rigurda il tasso di sostituzione, oggi è stimato intorno al 70%. Secondo lo studio, nel 2030 sarà del 57% per i lavoratori dipendenti e del 36% per gli autonomi. Trent’anni più tardi, nel 2060, sarà pari al 50,8% per la prima categoria e del 30% per i lavoratori autonomi (calcoli effettuati su un pensionando di 64 anni con 38 anni di contributi). Lo studio è stato effettuato sulla base dei dati del 2012, già inclusivi dei cambiamenti apportati dalla riforma Fornero.
Le previsioni, piuttosto buie, migliorano se si prendono in considerazione gli effetti della tassazione, cioè se si calcola il tasso di sostituzione netto. Infatti, grazie alla minor incidenza delle tasse sulle pensioni rispetto ai redditi di lavoro, le percentuali salgono. Per i dipendenti si passa, oggi, dal 70% lordo all’81% netto. Nel 2030 il tasso netto dei dipendenti si attesterà attorno al 70% (dal 57% lordo). Nel 2060, invece, si passerà dal 50,8% al 64% circa. Stesso discorso vale per i lavoratori autonomi. Insomma queste percentuali (che sono quelle che contano) devono far riflettere e sembrano tali da anticipare un ridimensionamento della previdenza pubblica.
Un piano previdenziale cucito su misura
“Le regole generali devono essere prese per quello che sono, dei principi ragionevoli che poi però devono essere adattati alla situazione personale di ognuno”, afferma in una nota Christine Benz, responsabile della sezione Finanza personale di Morningstar. “Un utile punto di partenza, specialmente per chi si sta avvicinando alla pensione, è crearsi un piano previdenziale, una specie di budget personale, per capire quali voci di spesa continueranno ad essere presenti anche nel post-carriera, quali aumenteranno e quali diminuiranno”.
“Ci possono essere casi molto diversi, soprattutto in base al livello di reddito percepito durante la vita lavorativa, ma ci sono comunque alcune tendenze generali”, prosegue Benz. “Ad esempio, durante la pensione si tende a mettere da parte meno soldi, quindi la voce “risparmio” si ridurrà nella maggior parte dei casi. Poi ci sono le spese sanitarie, una voce che normalmente aumenta di volume col passare degli anni. Altro punto che di solito pesa molto sono le passività, come il mutuo per la casa ancora non estinto, o altri tipi di debiti, che ci si trascina anche durante la pensione”.
Insomma, il tasso di sostituzione necessario a mantenere un buono stile di vita post lavoro cambia in base alla situazione personale di ognuno. Detto questo, è praticamente certo che i lavoratori attuali, specialmente quelli giovani, potranno raggiungere la soglia del 75-80% solo ricorrendo alla previdenza integrativa, quindi risparmiando di più.
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