Le strategie smart beta degli Etf non sono così intelligenti come il nome lascerebbe supporre. “Non so chi abbia creato questa espressione”, ha spiegato Rob Arnott, presidente della società di analisi Research Affiliates, intervistato in occasione della Morningstar Etf Conference tenutasi a Chicago la settimana scorsa. “Sono anche stato accreditato per averla coniata, ma non sono stato io. In ogni caso, è un’etichetta molto astuta. Ma in tutta onestà, non c'è niente di così geniale nelle strategie smart beta (smart in inglese significa intelligente, Ndr). È semplicemente un beta alternativo, diverso”. Un’etichetta che ha sicuramento aiutato i prodotti caratterizzati da questo tipo di strategia nell’aumentare il patrimonio gestito in Europa del 900% negli ultimi quattro anni (per approfondire, clicca qui).
Strategie capovolte e scimmie bendate
Gli analisti della Research Affiliates hanno pubblicato una ricerca che ha proprio lo scopo di capire quanto valore le strategie smart aggiungono alla tradizionale replica ponderata per la capitalizzazione di mercato. E i risultati sono sorprendenti.
“Ci siamo lanciati in un esercizio divertente”, spiega Arnott. “Abbiamo preso le principali strategie smart beta, che vanno dalla varianza minima, alla ponderazione basata sui fondamentali o sui dividendi, e le abbiamo capovolte. I titoli più pesanti di questi indici, sono diventati i meno rappresentati. Inversamente, qualunque sia stato il titolo più leggero, lo abbiamo fatto diventare il più pesante. Ad esempio, nella ponderazione fondamentale, a ExxonMobil o Apple, che sono i titoli più pesanti, abbiamo assegnato il peso più piccolo. E viceversa con i titoli meno rappresentati”.
Gli analisti, quindi, si sono ritrovati con una serie di portafogli molto bizzari, che non rispondevano a nessuna logica. Successivamente hanno simulato e confrontato le performarce sul lungo periodo (dal 1964 al 2012) delle strategie passive tradizionali (ponderate per la capitalizzazione di mercato) con le strategie smart beta originali e infine con queste strategie smart capovolte. Risultato, questi strani portafogli hanno in molti casi fatto meglio delle allocazioni smart originali, che a loro volta hanno battuto gli indici tradizionali.
Ma non finisce qui. Nel 1973, l’economista Burton Malkiel affermò che “una scimmia bendata che lancia freccette a pagine finanziarie di un giornale, potrebbe selezionare un portafoglio che farebbe altrettanto bene di uno accuratamente selezionato da gestori professionisti”. L’analisi di Arnott sugli Etf arriva a una conclusione simile. Lo studio, infatti, affianca alle varie strategie smart beta (originali e inverse) anche 100 portafogli equiponderati formati da 30 titoli azionari selezionati casualmente sul mercato (da un algoritmo, non da una scimmia). E anche in questo caso, 98 portafogli su 100 hanno battuto gli indici a capitalizzazione, se pur con una volatilità più alta (tutti i portafogli confrontati sono stati ribilianciati su base annuale).
Funzionano, ma spesso involontariamente
Quali conclusioni si possono trarre da questi risultati? Innanzitutto, secondo gli autori dello studio, alcuni approcci cosiddetti smart sono troppo complessi e poco trasparenti, oltre ad avere dei costi di transazione legati al turnover del portafoglio troppo elevati. Ma, soprattutto, anche quelle strategie che funzionano in realtà si basano su tesi d’investimento (su cui quindi è incentrata anche la campagna pubblicitaria) che giocano un ruolo marginale se non nullo nella creazione di valore. Piuttosto, questi approcci funzionano quando introducono in portafoglio, spesso involontariamente, titoli di tipo value e azioni a bassa capitalizzazione (che per onor del vero se da un lato aumentano le performance, dall’altro alzano la volatilità). Insomma, le strategie smart aggiungono valore semplicemente perché rompono il legame con la capitalizzazione di mercato e non bilanciano il portafoglio in base al prezzo del titolo.
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