I farmaci, in Cina, sono un affare pericoloso. Lo sanno bene alcuni manager di colossi come GlaxoSmithkline, Sanofi, Novartis ed Eli Lilly che, questa estate, sono stati coinvolti in alcune indagini per corruzione. Nel frattempo la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (Cnsr, l’organismo che si occupa della pianificazione economica cinese) ha fatto sapere di aver aperto dei fascicoli per esaminare la posizione di 60 aziende del pharma in connessione a una indagine relativa ai prezzi dei loro prodotti.
La Cina non scoppia di salute
Gli elementi che stanno alla base di questa ondata moralizzatrice che ha investito il segmento dell’healthcare cinese nascono da un sistema sanitario a pezzi e dalla necessità di contrastare dove si può il rallentamento dell’economia. Magari mettendo anche un freno alla guerra che si fanno le aziende farmaceutiche per guadagnare quote in uno dei mercati più interessanti del mondo. Secondo il rapporto World Medicine Situation preparato nel 2011 dalla World Health Organization, la Cina spende per i medicinali il 43% del budget dedicato alla salute. Negli stati occidentali si va dal 10% al 12%.
C’è poi la situazione delle strutture sanitarie. La maggior parte è controllata dallo stato e scarsamente finanziata. Alcuni servizi a pagamento sono erogati a tariffe che non coprono le spese. Per questo molti ospedali fanno la cresta sui prezzi dei farmaci o prescrivono quelli più costosi. Ci sono poi le mazzette che vengono prese dai medici per prescrivere determinati farmaci. Una situazione caotica che alla fine si riversa sui prezzi dei prodotti. Secondo i media di stato, Lian Hong, uno dei manager di Glaxo arrestati nel corso di un’indagine per corruzione, ha confessato che il costo delle mazzette veniva scaricato sul prezzo finale del medicinale che arrivava a costare anche il 30% in più del dovuto. Una dichiarazione che ha costretto il presidente delle attività internazionali del gruppo, Abbas Hussein, a dichiarare che la società “controllerà il business model del gruppo” per arrivare a dei risparmi che si tradurranno in prezzi più bassi per i consumatori cinesi.
Ci sono poi problemi per quanto riguarda l’antitrust. Il 7 agosto la Cnsr ha staccato multe per un totale di 110 milioni di dollari contro sei aziende di prodotti in polvere per bambini per violazioni della legislazione cinese anti monopolio. Le sei aziende, fra cui il colosso Abbot, hanno prima messo mano al portafoglio e poi hanno abbassato i prezzi. Una settimana prima l’Alta corte popolare di Shanghai aveva condannato alcune controllate di Johnson & Johnson per pratiche monopolistiche riguardo ad alcuni prodotti chirurgici.
La terra delle opportunità
Tutte queste situazioni hanno portato le aziende occidentali a gridare al complotto. Poche settimane fa la Camera di commercio dell’Unione europea in Cina ha pubblicato un documento in cui si parla di trattamento ingiusto nei confronti di aziende “che sono fra le più serie quando si parla di standard e procedure operative”. Pechino ha risposto mandando in onda sulla televisione di stato un’inchiesta sulle aziende cinesi indagate per corruzione.
Ma nonostante tutte le difficoltà, per le aziende del pharma la Cina - e più in generale i mercati emergenti - continuano a rappresentare un’opportunità d’oro. Secondo i calcoli di Damien Conover, analista di Morningstar, i paesi in via di sviluppo nel 2015 contribuiranno al 25% del fatturato dei colossi farmaceutici contro il 18% del 2011. Un miglioramento che andrà di pari passo con la crescita dei diversi paesi che formano il cosiddetto emerging world. “L’aumento del Pil di una nazione è fortemente correlato a una crescita della spesa per i prodotti farmaceutici dei suoi cittadini”, continua l’analista. Secondo uno studio della società di consulenza World Markets Monitor (che ha studiato le spese per la salute in 63 paesi in via di sviluppo), questa relazione si verifica nell’80% dei casi esaminati.
Le scelte operative
Le analisi, però, dimostrano che gli investitori sono poco propensi ad acquistare i titoli del pharma in base alle opportunità offerte dai paesi emergenti. Questo, sostanzialmente, per tre ragioni. Primo: i rallentamenti economici che hanno aumentato la volatilità dei paesi in via di sviluppo. Secondo: l’idea radicata nella testa degli operatori che il mercato di riferimento del pharma sia fondamentalmente quello americano. Terzo: la convinzione - “errata”, dice Conover - che i margini di guadagno realizzati dalle grandi aziende farmaceutiche siano troppo bassi.
Dal punto di vista operativo, chi vuole investire in aziende che operano in Cina deve fare delle ricerche approfondite. “La lezione che danno tutte queste indagini è che i comportamenti illegali, prima o poi, vengono puniti dalle autorità cinesi”, dice Conover. “Gli investitori, quindi dovrebbero chiedere maggiori informazioni alle aziende per sapere quale tipo di politica di vendita usano nel paese. Nessuno dirà mai che paga delle tangenti. Ma se utilizzano la strategia chiamata pull promotion (distribuire materiale informativo direttamente ai pazienti incentivandoli a chiederli al medico, Ndr) allora è segno che qualcosa non va. Sarebbe bene sapere anche se vengono condotte delle indagini sulle pratiche commerciali. Preferibilmente fatte da organismi indipendenti”.
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