Prima buona notizia: il calo del petrolio e l’indebolimento della Russia non faranno traballare i conti delle banche con forti esposizioni su questi due asset. Seconda buona notizia: il fatto che il mercato sia convinto del contrario può creare delle opportunità di acquisto sui titoli di quegli istituti di credito. "Intendiamoci, l’andamento del barile e il fatto che Mosca sia alle prese con le sanzioni internazionali sulla carta sono elementi di rischio per le banche e gli investitori fanno bene a valutarli”, spiega Erin Davis, analista di Morningstar. “I risultati degli stress test che abbiamo condotto sulle banche che copriamo alla luce della situazione dell’oro nero e dell’andamento del paese, tuttavia, indicano che anche lo scenario peggiore non inciderebbe più di tanto sulla solidità degli istituti finanziari. Il fatto che il mercato creda il contrario, però, crea delle opportunità di acquisto su titoli che, in situazioni normali, sarebbero a sconto”.
La simulazione messa a punto da Morningstar ha come base, per lo scenario peggiore, che le banche registrino perdite pari a quelle subite dagli istituti che sono stati colpiti di più nel corso delle ultime crisi finanziarie. Questi dati sono stati messi in relazione con le possibili evoluzioni della situazione del petrolio e della Russia. “L’esito è che la maggior parte delle banche che seguiamo con la nostra analisi (sono 28 quelle con un’esposizione ai due asset a rischio, Ndr) troverebbe quel livello di perdite sicuramente doloroso ma, comunque, gestibile. Almeno dieci istituti, invece, avrebbero bisogno di un aumento di capitale”.
Il caso del petrolio…
I prezzi del greggio sono scesi di quasi il 60% da giugno passando da 115 dollari al barile (per il Brent) a meno di 50 dollari a fine gennaio. Colpa di una maggiore disponibilità di oro nero negli Stati Uniti e del calo della domanda in Asia ed Europa. Nonostante questa situazione, l’Organizzazione dei paesi produttori ha deciso di tenere invariata l’estrazione. Un quadro simile si è visto all’inizio degli anni’80, quando, a causa delle politiche di austerità e di un rallentamento dell’attività economica nei paesi industrializzati, ci fu (fra il ’79 e l’81) un calo del 13% dei consumi in Usa, Europa e Giappone. Attualizzando i prezzi a oggi, il valore del barile poi passò da 104 dollari nel 1980 ai 31 del 1986 (peraltro, anche allora si diceva che la discesa dei prezzi non sarebbe durata a lungo). “Le banche sono molto prudenti quando si tratta di fare prestiti alle società del comparto energy perché conoscono bene la volatilità della commodity”, spiega l’analista di Morningstar. “La pratica standard è di prendere per buona la metà delle riserve di petrolio dichiarate dalle società in questione e basare le decisioni del prestito sul 30% di quell’ammontare. Il risultato è che la fluttuazione dei prezzi del barile rende comunque gestibili le perdite”. Lo si è visto anche a novembre quando Standard Chartered ha detto che una perdita del 50% nel valore delle commodity e dei minerari, avrebbe colpito in maniera marginale i suoi bilanci.
…e quello della Russia
Uno sguardo al passato può essere utile anche per capire quale impatto potrebbe avere la Russia. Nel 2009 l’Autorità di controllo sulle banche Usa ha condotto un poderoso studio sugli elementi che avrebbero potuto portare a ingenti perdite per gli istituti di credito. Fra i fattori presi in considerazione c’era anche la possibilità di una crisi in Russia. Un elemento non campato in aria alla luce della crisi del paese nel 1998, che aveva costretto a intervenire il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale con un aiuto da 22,6 miliardi di dollari. Il risultato peggiore, aveva concluso lo studio, sarebbe che le banche (mediamente) subirebbero perdite del 15% suoi prestiti accesi in Russia.
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