L’S&P500 non è più quello di una volta. E non importa se il paniere, punto di riferimento della Borsa americana e di diversi strumenti di investimento (non solo concentrati sugli Stati Uniti) che lo utilizzano come pietra di paragone, continua a macinare un record dietro l’altro. Sono sempre di più gli operatori che lo considerano un sistema di misurazione delle performance superato.
I limiti dell’S&P500
Le accuse che gli vengono rivolte sono quella di non coprire molte delle aziende americane più importanti e di essere ormai troppo dipendente dall’andamento di quel colosso che è diventato Apple. A questo va aggiunto che il paniere comprende solo aziende made in Usa e che, essendo un indice in cui pesa la capitalizzazione di mercato, le prime 10 aziende rappresentano quasi il 20% dell’intero benchmark. “Senza contare che lascia fuori imprese di medie e piccole dimensioni (raccolte negli indici Russell) che spesso hanno prospettive di crescita molto interessanti”, spiega uno studio di Calepian Investments. “Tutto questo porta a una serie di problemi quando si vuole utilizzare il paniere come fotografia di quello che sta succedendo sui mercati finanziari Usa e, più in generale, su quelli sviluppati”.
Tutto dipende da Apple
Lo si è visto bene nel primo trimestre di quest’anno: l’S&P500 ha guadagnato poco meno dell’1% e , nello stesso periodo, otto delle prime 10 aziende che lo compongono (fra cui colossi del calibro di Exxon Mobil e Procter&Gamble) hanno avuto un andamento negativo. “Se l’indice è riuscito a crescere è stato in larga parte per merito di Apple che, da solo, rappresenta il 4% del paniere e che, nei primi tre mesi dell’anno, ha guadagnato il 13%”, spiega uno studio della società di consulenza AdviceIQ. “Finché le vendite (e l’azione) del gruppo di Cupertino saliranno, quindi, andrà tutto bene per il paniere in generale. Ma se le cose nei prossimi trimestri dovessero cambiare allora saranno dolori”.
L’equity Usa vale ancora?
Partendo da questo quadro nasce un’altra domanda: l’equity Usa si merita ancora il credito che gli viene dato dalla finanza globale? Se si guardano i numeri la risposta è no. E’ vero che le azioni americane rappresentano, da sole, un terzo della capitalizzazione di mercato globale. Ma il valore in dollari dei titoli azionari americani (più di 22mila miliardi, secondo i calcoli della Federal Reserve di St. Louis) è meno del 10% della ricchezza globale calcolata dal Credit Suisse Global Wealth Report. Si dirà: ma l’azionario americano è quello che, nel lungo periodo, va sempre meglio di tutti. In realtà dipende. Era vero negli anni ’90 e anche l’anno scorso ha stracciato diversi record. Ma negli anni ’70 le commodity hanno lasciato al palo le azioni americane, mentre gli anni ’80 hanno visto il predominio dell’azionario internazionale. Negli anni 2000, nel periodo che va fra lo scoppio della bolla Internet e la crisi dei mutui subprime, la vera stella è stata il real estate. Tutto questo può portare problemi anche in termini di diversificazione. Secondo uno studio Morningstar, le azioni Usa formano fino a 2/3 dei portafogli dei fondi venduti negli Stati Uniti. Un peso eccessivo se si considera che la quota ideale, a seconda dello strumento, per la responsabile della finanza personale di Morningstar, Christine Benz, dovrebbe andare dal 10% al 20%.
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