Le azioni growth sono ancora per gli investitori stupidi? E quelle value sono sempre per gli intelligenti? I numeri sembrano smentire quelli che vengono tuttora considerati due capisaldi dell’operatività in Borsa (value is for bright, growth is for dummies). Almeno per ora.
Negli ultimi cinque anni (fino a venerdì 13 novembre), l’indice Morningstar large growth stock ha guadagnato il 15,4% (annualizzato) contro il 10,7% del paniere dedicato alle aziende large value. “Si tratta di due andamenti che non possono essere spiegati con le classiche teorie sugli investimenti”, spiega John Rekenthaler, membro del dipartimento di ricerca di Morningstar. “Il modello chiamato Capital asset pricing (CAP) insegna che nelle fasi di mercato Toro le aziende growth (quelle che hanno i tassi di crescita più alti, Ndr) fanno meglio di quelle value (quelle che tendono a restituire più valore agli azionisti, Ndr) grazie a un beta più alto. Ma questo è vero solo in parte e, comunque, non in misura tale da giustificare una differenza così forte nei corsi dei due tipi di equity”. Se il modello CAP valesse sempre, le stesse differenze di performance dovrebbero registrarsi anche nei sotto-segmenti small e mid cap dei due tipi di azioni (nel primo caso c’è una differenza di appena 117 punti base, mentre nel secondo le value fanno leggermente meglio delle growth).
Piove sul bagnato
“Negli ultimi anni è intervenuto un fattore nuovo: le aziende più forti e ricche lo sono diventate ancora di più”, spiega Rekenthaler. “Questo ha avuto il doppio effetto di aumentare ancora di più l’interesse degli investitori e di far diventare più ricchi i dipendenti delle aziende in questione”. I fenomeni sono stati spiegati recentemente nello studio A Firm-Level Perspective on the Role of Rents in the Rise in Inequality (dedicato alle maggiori diseguaglianze fra ricchi e poveri), firmato da Jason Furman e Peter Orszag, rispettivamente responsabile del President’s Council of Economic Advisers (il gruppo di economisti che lavora con l’amministrazione Obama) e Vice Chairman of corporate and investment banking di Citi.
Tutto ciò si è visto soprattutto fra le società tecnologiche e tra quelle farmaceutiche che rappresentano il cuore del segmento growth. Secondo lo studio dei due economisti, un insieme di asset intangibili come le innovazioni tecnologiche e il numero crescente di clienti e fornitori ha permesso alle società di questi due settori di aumentare i loro margini, a dispetto della teoria economica classica che prevede un calo dei guadagni a fronte di un aumento della concorrenza (un elemento, quest’ultimo, caratteristico dei due settori). “Siamo di fronte a uno degli effetti della globalizzazione”, dice Rekenthaler. “I giganti dell’hi-tech e del pharma lavorano a livello internazionale e sono in grado di generare all’estero i guadagni che possono perdere a causa delle concorrenza domestica”.
Un po’ di growth, ma per poco
Tutto questo ha, a cascata, degli effetti di cui gli investitori devono tenere conto. Almeno nel breve termine. “I titoli growth possono diventare una componente importante dei portafogli, a patto che siano di grandi aziende americane”, dice Rekenthaler. “Al momento sono le uniche ad avere dimensioni tali, anche a livello internazionale, per poter approfittare di una ripresa globale. E se il dollaro si indebolisce, i profitti realizzati all’estero aumenteranno quando saranno trasformati in valuta Usa. Si tratta però di un asset di investimento da maneggiare con attenzione. Solo un pazzo butterebbe nel cestino le prove arrivate nell’ultimo secolo che dimostrano come le azioni value siano meglio delle growth. Nell’attuale situazione di mercato, tuttavia, le seconde sembra che possano fare ancora meglio delle prime, almeno per i prossimi cinque anni”.
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