Occhio ai bond latinoamericani: secondo gli analisti di Standard & Poor’s il downgrade è dietro l’angolo. In una fase di mercato caratterizzata da rendimenti obbligazionari prossimi allo zero (e in alcuni casi negativi), un ritorno superiore al 10% per un titolo di stato sembra un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare, ma il rischio è che le difficoltà economiche e politiche dei governi emittenti si traducano, per l’investitore, in una perdita. Il report di ottobre 2016 della società di rating ha evidenziato, infatti, come per Brasile, Colombia, Messico e Venezuela un declassamento del merito creditizio sia più di una possibilità nei prossimi due anni.
Il default non è un caso
Nel recente passato l’America latina ha riservato spiacevoli sorprese ai sottoscrittori di obbligazioni governative: Equador nel 1999 e nel 2008, Perù nel 2000, Uruguay nel 2003, Argentina nel 2001 e nel 2014, sono solo alcuni casi di default registrati nella regione. Ora la situazione sembra complicarsi nuovamente. Dopo circa dieci anni di espansione sostenuta dalla forte domanda di materie prime da parte dei paesi asiatici, da bassi tassi di interesse e da ingenti flussi di capitale in arrivo dall’estero, l’America latina si è inceppata a causa del rallentamento dell’economia cinese e della conseguente crisi del mercato delle commodity.
In alcuni paesi il peggioramento della congiuntura ha fatto lievitare il deficit di bilancio e con esso anche il debito pubblico, esploso a volte anche per effetto del deprezzamento della valuta.
Impeachment e non solo
A preoccupare gli analisti, ora, è il Brasile che, per finanziare il debito, offre un rendimento del 12% per i suoi titoli decennali. Uno dei più generosi tra i bond emergenti.
L’economia brasiliana, infatti, ha registrato negli ultimi due anni un tasso di crescita dello 0,1% (nel 2014) e di -3,8% (nel 2015), e quest’anno si stima un ulteriore calo del 3,2% (fonte dati FocusEconomics). Questi risultati si accompagnano a un progressivo allargamento del deficit pubblico, passato dal 2,3% (in % sul Pil) del 2012 al 10,4% del 2015, e di conseguenza del rapporto debito/Pil, salito nello stesso periodo dal 53,8% al 66,5%.
L’outlook per i prossimi anni, inoltre, non è assolutamente tranquillizzante. Il paese dovrà ricorrere alla spesa pubblica per dare sostegno all’economia (che potrebbe crescere in media del 2% circa dal 2017 al 2020), ma questo promette di far lievitare il debito statale all’87% sul Pil (stime a cura di FocusEconomics).
A fianco alle difficoltà economiche ci sono anche quelle di carattere politico. Dopo l’impeachment del presidente Dilma Rousseff, il governo del paese è passato nelle mani di Michel Temer, leader del partito di centro-destra Pmdb e del suo vice, chiamato a traghettare il Brasile fino alle prossime elezioni politiche del 2018. L’instabilità del paese carioca, però, è strutturale.
Dal 1988 a oggi, infatti, tutti i presidenti sono stati colpiti da una richiesta di impeachment da parte del Parlamento (anche se solo in due casi, nel 1992 e nel 2015, tale richiesta è stata poi approvata dall’Assemblea) e questo è sintomo dell’instabilità politica del paese, nel quale l’elevato numero di partiti complica enormemente la realizzazione di coalizioni di governo durature.
Venezuela a un passo dal precipizio
Situazione ai limiti del paradosso è quella in Venezuela: il paese latinoamericano è sprofondato in una crisi economica, politica e sociale, ma nonostante questo le sue emissioni obbligazionarie continuano a raccogliere i favori degli investitori istituzionali. L’economia del paese è andata in tilt a causa del crollo del prezzo del petrolio, le cui esportazioni fruttano circa l’85% della ricchezza complessiva.
Il Pil è dunque calato del 3,9% nel 2014, del 5,7% nel 2015 e si stima che quest’anno possa scendere ulteriormente del 10% (fonte: Banca Mondiale). Tale situazione ha prosciugato le casse del Governo, come testimoniato dall’andamento del rapporto deficit/Pil (salito progressivamente fino a superare quota 15%), e ha fatto lievitare il debito pubblico (in % sul Pil) dal 23% del 2008 all’attuale 53% (fonte dati Fondo Monetario Internazionale). Le autorità hanno cercato di sopperire alle esigenze di liquidità stampando moneta, ma questo ha fatto esplodere il tasso di inflazione all’800% (stando alle stime della Banca Mondiale).
Il paese versa ora in una condizione di estrema povertà, come testimoniato dall’80% della popolazione che vive in situazione di completa indigenza, dalla difficoltà di reperire generi alimentari e dall’aumento dei tassi di mortalità. Sul fronte politico la situazione è in un equilibrio precario: il presidente Nicolas Maduro ha perso la maggioranza nell’Assemblea nazionale dopo le elezioni dello scorso dicembre e ha bloccato il referendum richiesto dalle opposizioni per andare a elezioni anticipate. La prossima tornata elettorale è prevista nel 2018, ma in questo clima di instabilità politica tutto è possibile.
Gli investitori scomettono sulla solvibilità
Una situazione del genere dovrebbe scoraggiare chiunque a investire nel debito venezuelano, ma alcuni investitori istituzionali non la pensano così. “Il paese è solvibile ed è in grado di far fronte ai propri impegni”, dice Jan Dehn, capo della ricerca e analista del debito emergente della banca d’investimento inglese Ashmore Group.
“La società petrolifera controllata dallo stato, la PDVSA, è valutata circa 3mila miliardi di dollari, una somma ampiamente necessaria a ripagare un debito stimato in circa 300 milioni di dollari. Oltre ad essere sicure, le emissioni venezuelane sono anche economicamente convenienti. Il loro prezzo, infatti, è talmente basso da garantire un apprezzamento del capitale investito anche in caso di default del paese, poiché la possibilità di mettere all’asta le riserve di greggio della compagnia petrolifera di Stato aiuterà a mantenere alto il valore residuo del bond. Inoltre, le obbligazioni venezuelane garantiscono uno yield del 10,5%”.
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