Controllo dei costi. E’ questa una delle cinque aree su cui i promotori finanziari dovrebbero concentrare maggiormente l’attenzione ai nostri giorni. A dirlo è Don Phillips, uno dei direttori di Morningstar, che per lungo tempo è stato a capo della divisione di ricerca ed è un grande conoscitore dell’industria del risparmio gestito americana. Gli fanno eco altri protagonisti del settore, come John “Jack” Bogle, fondatore di Vanguard, che dice: “Noi investitori otteniamo esattamente quello che non paghiamo. Di conseguenza, se non paghiamo nulla, otteniamo tutto”.
Più trasparenza con Mifid 2
Per gli operatori italiani, il tema è tanto delicato quanto scottante alla luce della nuova disciplina prevista dalla Mifid 2, la direttiva comunitaria che entrerà in vigore il 3 gennaio 2018. “Le novità sul regime di trasparenza dei costi e degli oneri che gli intermediari sono obbligati a rendere nei confronti della clientela rappresenta un elemento rilevante e sarà un campo sul quale si giocheranno molte sfide competitive, in ragione del cambiamento di approccio che tocca la percezione degli investitori”, spiega l’avvocato Luca Zitiello, managing partner dello studio Zitiello e Associati.
La via per il successo
Sul mercato statunitense, i costi hanno assunto un ruolo centrale, dopo essere stati poco considerati per molti anni. La ragione è semplice: il tasso di successo di un fondo, inteso come miglior rendimento e minore probabilità di chiusura, aumenta con il diminuire delle spese che gravano su di esso (vedi grafico 1).
Il Barometro degli investimenti attivi/passivi, disegnato da Morningstar nel 2015 per confrontare le performance delle strategie attive con quelle di un paniere di strumenti indicizzati disponibili sul mercato e realizzato ogni semestre, mostra come gli active abbiano generalmente fatto peggio dei passive manager su orizzonti temporali estesi. Inoltre, più un fondo è costoso, maggiore è la probabilità che venga liquidato. “Tra il 2015 e il 2016, il tasso di successo dei fondi attivi è sceso”, spiega Ben Johnson, direttore della ricerca globale sugli Etf di Morningstar. “Ad esempio, tra gli azionari statunitensi, solo il 26% ha battuto il paniere degli indicizzati nel 2016, contro il 41% l’anno precedente”.
Costi e performance
Numerosi studi Morningstar hanno dimostrato che i costi sono l’indicatore migliore delle performance future di un fondo. Le spese, infatti, riducono il rendimento, per cui, come dice Bogle, meno si paga, più si può ottenere.
Gli investitori se ne sono accorti. Negli Stati Uniti, i fondi indicizzati hanno avuto flussi netti per 504,8 miliardi di dollari nel 2016, superando il record del 2014 (422,7) e il risultato del 2015 (418,5). Per contro i comparti attivi hanno chiuso con riscatti netti pari a 340,1 miliardi, che si aggiungono ai -230,5 miliardi dell’anno precedente. In Europa, il 2016 ha rappresentato un anno di cambiamento nei rapporti tra i due approcci alla gestione. I flussi netti negli indicizzati sono stati pari a 77 miliardi di euro (il dato include gli Etf), contro i 45 miliardi dei comparti a gestione attiva. La quota di mercato dei primi all’interno dell’universo dei fondi a lungo termine (esclusi i monetari) è cresciuta al 15,1% dal 13,8 di fine 2015. La porzione più significativa è in mano agli Etf, mentre gli index fund non quotati sono ancora una nicchia. A livello globale, gli active fund hanno registrato riscatti netti per 92 miliardi di dollari, mentre gli index fund hanno raccolto 625 miliardi.
“E’ difficile prevedere quale sarà la magnitudine dell’espansione delle strategie passive”, dice Ali Masarwah del team di research editor di Morningstar. “Tuttavia le ragioni sono chiare: i costi sono il miglior indicatore delle performance future. Inoltre, sono noti a differenza delle performance che non possono essere previste”. I consulenti finanziari sono avvisati: la domanda più ricorrente del cliente nei prossimi anni potrebbe essere: “Quanto mi costa?” piuttosto che “Quando mi rende?”.
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