Il voto di un gestore nell’assemblea degli azionisti di una società che ha in portafoglio può dire molto su come viene eseguito il mandato di sostenibilità. Le analisi di Morningstar rivelano che non sempre c’è un completo allineamento.
Prendiamo, ad esempio, il tema del cambiamento climatico. L’anno scorso, negli Stati Uniti, durante la stagione delle assemblee, anche detta proxy season, 14 risoluzioni su questo problema hanno ricevuto un supporto da parte degli azionisti superiore al 40% e 8 di queste, maggiore del 50%. Come spiega Jackie Cook, Director of Manager Research Sustainable stewardship di Morningstar e intervenuta al Salone del Risparmio di Milano il 4 aprile, è un risultato importante dato che i vertici delle aziende generalmente danno raccomandazioni di voto “contro” tali provvedimenti.
Sgr sostenibili e tradizionali
Esiste tuttavia una differenza tra le società di gestione specializzate sui temi della sostenibilità e quelle tradizionali. Infatti, nel 2018, le prime hanno votato in modo unanime a favore del 100% delle risoluzioni relative ai cambiamenti climatici; mentre gli asset manager tradizionali, tra cui BlackRock, Fidelity, Invesco, State Street e Vanguard, hanno avuto comportamenti contrastanti, anche nella loro offerta ESG (vedi tabella sotto riferita a strumenti finanziari disponibili sul mercato statunitense, non su quello europeo).
Voto di alcuni fondi sostenibili USA su risoluzioni riguardanti il clima
Come si spiegano le differenze
In parte, queste inconsistenze possono essere spiegate dalle pratiche di voto. “Per alcune case di gestione, le procedure di proxy voting sono uniformi per l’intera gamma, indipendentemente dal mandato ESG; mentre per altre i singoli gestori hanno più discrezionalità”. Può, dunque, accadere che la contrarietà su una determinata risoluzione derivi da una sorta di ordine di scuderia applicato a livello di società, quindi senza differenziare chi prevede l’applicazione di criteri socialmente responsabili e chi no.
Casi simili di disallineamento si riscontrano anche con riferimento alle tematiche di genere, in particolare all’aumento del numero di donne nei consigli di amministrazione, alla riduzione dei gap salariali, alla trasparenza sulle politiche di genere sui luoghi di lavoro e alle possibilità agganciare la remunerazione dei vertici a metriche di sostenibilità.
Il ruolo degli indicizzati
Nonostante questi disallineamenti, l’aumento del sostegno a risoluzioni relative ad ambiente e sociale da parte dei grandi gestori di portafogli è incoraggiante. In passato, spiega Cook, erano molto meno propensi, ma oggi, che detengono grandi fette dell’economia attraverso i fondi indicizzati, lo sono molto di più. Probabilmente, una delle ragioni principali è la necessità di ridurre i rischi della mancata gestione di determinati problemi, come ad esempio il surriscaldamento del globo. La Sec, che è la Consob americana, chiede ai fund manager, nell’ambito dei loro doveri fiduciari, di esercitare i loro diritti nelle assemblee, compreso il voto e di darne disclosure al mercato.
Prima di proporre una risoluzione, generalmente le case di investimento intraprendono un dialogo con l’azienda (tecnicamente engagement) e la rottura delle trattative è spesso la vera ragione per cui si arriva al voto in assemblea. I due aspetti, tuttavia, sono complementari, non alternativi. Ad esempio, può accadere che impresa e società di gestione trovino un accordo sulle cosiddette quote rosa, ma non su altri aspetti che sono i presupposti per avere più donne nei Cda, quali la parità di condizioni di carriera e opportunità, oltre alla riduzione delle differenze nelle buste paga. Proprio il cosiddetto pay gap potrebbe essere, secondo Cook, il tema caldo della stagione americana delle assemblee che è alle porte.
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