Le obbligazioni dei paesi emergenti rischiano grosso. Il rallentamento dei mercati in via di sviluppo, infatti, potrebbe mettere in pericolo la corsa di uno degli asset più interessanti degli ultimi tempi. L’indice Jpm Embi del segmento dal 2007 ha guadagnato più del 12% (in euro).
Un passo che gli emerging market bond potrebbero non essere più in grado di tenere alla luce delle informazioni che stanno arrivando. Valga per tutti l’esempio della Cina. Gli ultimi dati arrivati dal Paese del Drago dicono che l’attività manifatturiera è crollata in agosto al livello più basso dal marzo 2009. L’indicatore, elaborato dalla banca Hsbc, conferma il forte rallentamento accusato dalla crescita della seconda economia mondiale. L’indice Pmi dei responsabili degli acquisti delle imprese cinesi lo scorso mese è sceso a 47,6 punti dai 49,3 di luglio. L’indicatore, se si trova sotto quota 50, segnala una congiuntura in frenata. Più in generale i paesi in via di sviluppo devono fare i conti con la debolezza dei principali mercati di esportazione (Europa in primis, ma anche Usa) e con la percezione, ancora radicata nella mentalità degli investitori, che si tratta di aree a rischio. “Non ci sono dubbi sul fatto che i mercati emergenti stiano rallentando”, spiega Matthew Benkendorf, gestore e analista di Vontobel. “Nel tempo questo creerà delle opportunità, anche perché costringerà le aree in via di sviluppo a risolvere alcuni problemi critici. Ma, intanto, dobbiamo fare i conti con il fatto che non sono più in grado di correre come prima”.
Un bel problema per quanti in questi anni hanno puntato sulle regioni meno sviluppate del mondo nella convinzione che, grazie alla domanda interna, potessero viaggiare sganciate dai mercati più sviluppati. “Adesso ci accorgiamo che non era un’idea così solida”, dice Jose Garcia-Zarate, analista di Morningstar. La soluzione potrebbe essere un cambio di strategia da parte dei governi delle aree emergenti. “Devono rendersi conto che il programma di puntare tutto sulla domanda domestica non è ancora applicabile”, continua Zarate. “La strada giusta da seguire è quella di tornare ad essere economie orientate all’export. Una strategia che può essere studiata mentre i paesi più sviluppati cercano di uscire dalla crisi economica”.
I bond non sono le azioni
Il consiglio, comunque, non sembra fare breccia fra i politici delle zone in via di sviluppo. I governi provinciali cinesi hanno appena annunciato grandi investimenti nelle infrastrutture per i prossimi tre anni. “La raffica di tagli dei tassi di interesse di giugno e luglio ha ridato spinta alla concessione di prestiti mentre ci sono segnali di una ripresa dell’attività immobiliare”, spiega uno studio di Thomas White International. “Insomma, non ci sono indicazioni di un ritorno a un’economia basata sulle esportazioni”.
Quello che vale per le obbligazioni, tuttavia, non si può applicare alle azioni. “Il Pil delle economie emergenti continuerà a crescere più velocemente di quello dei paesi sviluppati. Senza contare che gli stati in via di sviluppo non hanno lo stesso livello di indebitamento né le crisi finanziarie delle grandi economie”, spiega uno studio firmato da Luiz Soares e Jeff Shen di BalackRock che pongono l’accento sull’aumento dei profitti delle aziende delle aree emergenti. “Crescono molto velocemente. Per questo conviene puntare su di loro piuttosto che sulle azioni di società multinazionali che hanno solo una parte dei ricavi derivanti dai paesi emergenti”.
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