Su una cosa sono tutti d’accordo: la pensione pubblica non basterà a vivere decentemente, perciò occorre integrarla in qualche modo. Peccato che la contraddizione nasca proprio qui. La previdenza complementare non decolla nonostante i lavoratori sappiano che l’assegno dell’Inps non sarà sufficiente. Tra i principali motivi, la crisi, la paura di perdere il lavoro, la precarietà, gli alti costi e soprattutto la scarsa informazione.
Questi, in sintesi, i risultati di una ricerca effettuata su un campione di 2.400 lavoratori (composto da dipendenti pubblici, dipendenti privati e lavoratori autonomi) focalizzata su aspettative e bisogni informativi dei lavoratori sulla previdenza complementare e realizzata dalla Fondazione Censis su incarico della Covip.
Fare i conti con la crisi
La ricerca individua due gruppi di problematiche che incidono: i fattori di contesto e i fattori specifici. I primi riguardano la situazione economica attuale. In particolare, in un periodo di crisi, la diffusa paura di perdere il lavoro e il crollo della capacità di risparmiare restringe la possibilità di destinare risorse al futuro e rende molto severo lo scrutinio degli italiani sulle destinazioni dei propri risparmi.
In questo periodo di crisi, si legge nel report, la previdenza come sistema e come percorso personale catalizza paure, diventa fonte di incertezza; l’esatto contrario della sua ragione di essere primaria, cioè un pilastro della tutela sociale che mette al riparo i cittadini dagli esiti del grande rischio di non riuscire a mantenersi economicamente durante la vecchiaia. Tra le principali paure ci sono la perdita del posto di lavoro e la precarietà.
Preoccupati di perdere il lavoro, con ridotta capacità di produrre risparmio, convinti che la pensione pubblica sarà bassa, i dipendenti privati, più degli altri, si mostrano orientati a integrare il reddito pensionistico pubblico atteso con la previdenza complementare, ma questa volontà potenziale oggi si scontra con la condizione materiale percepita come molto fragile. I dipendenti pubblici invece sentono la rete di tutela pubblica più tranquillizzante, e contando sulla certezza nel tempo di lavoro e reddito prevedono di generare sufficiente risparmio per la vecchiaia. Gli autonomi puntano su se stessi, sulla propria attività, sulla produzione di risparmi per finanziare il welfare alternativo fatto di patrimonio immobiliare e polizze assicurative.
Fattore “diffidenza”
Il secondo gruppo, invece, riguarda quei fattori che rendono meno attraenti gli strumenti di previdenza complementare agli occhi dei lavoratori. Secondo il campione intervistato, tra i fattori specifici di difficoltà, i più importanti sono la ridotta fiducia e la poca informazione che concerne il secondo pilastro.
Ad esempio, c’è tra i lavoratori italiani la convinzione che le regole previdenziali siano destinate a cambiare ancora e questa incertezza delle regole e certezza della loro mutevolezza non fa che generare inquietudine. Lo stop and go normativo di questi anni ha minato la fiducia in uno degli aspetti fondativi della previdenza, ovvero la certezza delle regole ed il fatto che essa sia in grado di dare sicurezza alle persone relativamente alla loro vecchiaia.
La previdenza infatti è uno dei pilastri della protezione sociale nata per dare copertura da uno dei grandi rischi, oltre alla salute e all’inabilità al lavoro, la vecchiaia. Invece oggi l’84% dei lavoratori è convinto che le regole siano destinate inevitabilmente a cambiare e questa opinione prevale in modo trasversale al corpo sociale e alle macro-aree geografiche.
Costi alti e poca fiducia
Inoltre, tra le principali giustificazioni alla mancata adesione troviamo i costi troppo elevati (41% degli intervistati), dove per costo si intende il rapporto costo-beneficio in relazione al proprio reddito (se si ha bisogno di tutto il proprio salario per vivere non si può destinarne una parte al fondo pensione). Seguono il “non fidarsi di questi strumenti” (il 28% degli intervistati), la questione anagrafica (“sono troppo giovane per pensarci”, 19% del totale) e infine la irrevocabilità della destinazione del Tfr (Trattamento di fine rapporto), che per legge non potrà più ritornare in azienda una volta entrato nella previdenza complementare (9%).
Previdenza complementare, questa sconosciuta
Ma l’aspetto che emerge dalla ricerca come quello di gran lunga più influente sulle basse adesioni è l’aspetto informativo. Secondo lo studio, infatti, esiste una vera e propria “voragine informativa” tra i lavoratori italiani, i quali mostrano di saperne poco.
L’informazione finora veicolata da vari soggetti è arrivata poco e male ai lavoratori, si legge nell’analisi, e sicuramente non nelle modalità necessarie a stimolarli ad affidare i propri risparmi, in un momento così difficile, proprio agli organismi che operano nella previdenza complementare. È chiaro che questo è un handicap rilevante per la previdenza complementare tanto più in un contesto in cui la severità degli italiani nella selezione delle forme di allocazione del risparmio rende particolarmente competitiva la concorrenza.
Poco appeal
Questo ha come conseguenza diretta il mancato sviluppo del secondo pilastro. Infatti, alla domanda di indicare la fonte di reddito più importante durante il periodo di pensionamento, oltre alla pensione pubblica, il 40% dei lavoratori intervistati ha indicato i propri risparmi e eventuali titoli mobiliari, il 18,7% il patrimonio immobiliare, il 16,5% una forma di previdenza complementare, dai fondi pensione ai Pip (Piani individuali pensionistici), e il 12,3% ha richiamato le polizze assicurative diverse dai Pip. Insomma, tra chi cerca una via per integrare la propria pensione pubblica, solo un lavoratore su sei aderisce a prodotti del secondo pilastro.
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