Gli investitori comprano buoni fondi, ma nel modo sbagliato. E’ la conclusione a cui giunge una recente ricerca di Morningstar, riferita al mercato americano (dove sono disponibili serie storiche decennali), ma che offre interessanti spunti anche per quello italiano.
I cattivi non fanno strada
Lo studio mette in luce come gli investitori statunitensi scelgano i fondi di miglior qualità, con bravi manager, costi contenuti e un rating quantitativo (le stelle) elevato. A differenza del passato, i sottoscrittori prestano grande attenzione a quanto gli interessi della società di gestione sono allineati con quelli dei risparmiatori, alla capacità delle aziende di trattenere i manager più bravi, ai conflitti di interesse e agli incentivi ai gestori. In una parola, sono sensibili allo stewardship grade, un indicatore utilizzato da Morningstar per valutare le case di investimento. In media, i fondi migliori hanno raccolto 894,8 milioni di dollari ciascuno tra il 2004 e il 2009, contro deflussi per 199,5 milioni dei peggiori. Non solo, tra questi ultimi, il 31% ha dovuto chiudere per l’assottigliarsi delle masse contro l’1% dei prodotti di maggior qualità.
Guardando alle stelle, poi, si nota come esse abbiano la capacità di indirizzare verso i fondi che offrono i migliori rendimenti in relazione alla categoria di appartenenza, quelli che hanno le commissioni più competitive e i manager con più anni di persistenza nella gestione.
Il segreto del tempo
Dunque, gli investitori statunitensi, grazie anche al lavoro dei consulenti indipendenti e di una maggior attività di educazione finanziaria da parte della stampa a stelle e strisce, si orientano verso i fondi migliori, ma compiono ancora degli errori nel comprare e vendere. Lo studio di Morningstar confronta il rendimento totale delle principali categorie azionarie e obbligazionarie con l’investor return, che tiene conto dei flussi in entrata e in uscita. Su un orizzonte di dieci anni, il gap complessivo tra le due tipologie di ritorni è dell’1,53%. In pratica, i fondi hanno reso in media il 3,23%, ma l’investitore ha guadagnato solo l’1,69% perché ha sbagliato il timing.
La storia si ripete. Prima della crisi del 2007, gli investitori inseguivano le performance dei fondi azionari; ora quelle degli obbligazionari, che nello scorso decennio hanno dato risultati decisamente migliori. Ma così facendo finiscono per non cogliere mai a pieno le performance. Il gap è maggiore per i comparti più volatili e specializzati, come i settoriali, ed è minore per quelli più diversificati (ad esempio i bilanciati). Non c’è, invece, grande differenza tra la gestione attiva e quella passiva.
Colpa della pubblicità
E’ tutta colpa degli investitori se sbagliano il timing? Non proprio. Scorrendo le pubblicità dal 2000 al 2009 si scopre che l’industria ha sempre incoraggiato l’assunzione di rischi nelle fasi di picco e la difesa in quelle di crisi. All’inizio del decennio scorso c’erano i fondi tecnologici e la bolla Internet è scoppiata, nel 2003 gli obbligazionari e i protetti (e i mercati azionari hanno cominciato a salire), nel 2009 lo slogan era “absolute return” (e le Borse mondiali hanno messo a segno un rialzo del 26%).
Che dire poi dei fondi-civetta, quelli che tutti i promotori vogliono avere nella gamma e gli investitori in portafoglio per effetto di un tam-tam che si diffonde molto più velocemente e pericolosamente della pubblicità? Negli ultimi anni, in Italia il fenomeno si è accentuato e qualche segnale di gap tra i rendimenti totali e dell’investitore comincia a vedersi, soprattutto tra i fondi più volatili. Tuttavia, bisogna aspettare di avere una serie storica più lunga per misurare a pieno gli effetti. Intanto, investitore e promotori possono cominciare a prendere nota…
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