Mentre il mondo osserva le tensioni in nord Africa cercando di capire quali saranno le conseguenze nel medio termine, gli investitori sono già preoccupati per un’altra zona: la Cina. Gli scontri che si sono verificati in Tunisia prima e in Egitto poi hanno avuto scarse conseguenze sui mercati. La situazione è cambiata con l’estendersi della crisi alla Libia (l’ottavo produttore di petrolio dell’Opec con i suoi 1,5 milioni di barili estratti al giorno) e al Bahrain.
La paura, nel breve, è che le tensioni possano arrivare ai Paesi del Golfo persico. “Un contagio di questo tipo avrebbe inevitabilmente un impatto sui prezzi del petrolio perché creerebbe incertezze in un’area che provvede a un quinto dell’energia mondiale e che nasconde le maggiori riserve di oro nero del pianeta”, spiega Nicolas Robin, gestore di commodity di Threadneedle. Questa eventualità, tuttavia, è vista con favore dagli investitori in materie prime perché farebbe volare le quotazioni del petrolio e di tutti i prodotti che hanno il prezioso prodotto come sottostante. Ma fin qui siamo nella normalità di un segmento di mercato abituato alla volatilità del petrolio e che, nel corso dei decenni ha imparato a fare i conti con l’imprevedibilità di zone da sempre considerate ad alto rischio geopolitico.
Il Drago non è più d’oro
Il problema è più complesso per la Cina un Paese che, fino a pochi mesi fa, veniva considerato l’El Dorado degli investimenti e che, ultimamente sta iniziando a perdere colpi. “L’eta dell’oro è vicina alla fine”, dice senza mezzi termini uno studio firmato da David Beim, professore di economia e finanza alla Columbia Business School, secondo cui il Paese del drago sta perdendo competitività. “Il Paese ad aprile del 2010 ha avuto il primo deficit commerciale degli ultimi sei anni, mentre nell’intero hanno il surplus è stato del 6% inferiore al 2009”. Una soluzione potrebbe essere quella di aumentare i consumi interni. “Per fare questo le imprese cinesi dovranno pagare di più i lavoratori”, continua lo studio. “Molte hanno iniziato a farlo ed altre le seguiranno. Ma questo creerà un altro problema: metterà in crisi il modello cinese che si basa sulla produzione a basso costo. Le famiglie cinesi, diventando più ricche, vorranno maggiore qualità”.
La Cina come asset di investimento ha già iniziato a confondere gli investitori. Da una parte ci sono segnali di ripresa dei Paesi sviluppati che possono dare ossigeno alle esportazioni e, di conseguenza, fornire un’ulteriore spinta al Pil. Dall’altra c’è l’inflazione, arrivata ai massimi degli ultimi tre anni, che ha convinto la Banca popolare ad alzare più volte i tassi, peraltro con scarso successo sul fronte dei prezzi al consumo. Senza contare la spada di Damocle della bolla immobiliare che potrebbe scoppiare da un momento all’altro con effetti imprevedibili.
Meno crescita, più selezione
In uno scenario del genere gli investitori, che prima erano concordi nell’elogiare le virtù della Cina, ora iniziano a dividersi. I pessimisti dicono che l’indice Msci China ha sottoperformato il più generale Asia del 32% negli ultimi due anni. Gli ottimisti precisano che la frenata è stata causata dalle large cap, mentre il paniere dedicato alle piccole aziende ha superato l’indice maggiore del 66%. “Volendo dar retta a tutte e due le versioni, bisogna concludere che per quanto riguarda gli investimenti in Cina si deve essere più selettivi” spiega Peter Sartori, amministratore delegato di Treasury Asia. “I rischi possono essere ridotti comprendendo quello che sta succedendo nel Paese”.
Cosa riserva quindi il futuro della Tigre asiatica? “Uno stop improvviso della crescita come quello registrato dal Giappone negli anni ’90 sembra poco realistico”, risponde il professor Beim. “Un esempio più calzante è la Corea, dove l’aumento del Pil ha toccato punte del 10-11% dalla metà degli anni ’80 per poi arrivare a un più contenuto 4-5% dopo il 2002. Il governo cinese è famoso per fare le cose con gradualità, per cui ogni cambiamento a favore dei lavoratori e dei consumatori avverrà lentamente. Nel frattempo, dovremo renderci conto che il periodo della forte espansione cinese sta per finire”.
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