Alzi la mano chi non ha mai investito in un fondo azionario mercati emergenti. Le statistiche fanno pensare che siano pochi tra i sottoscrittori del risparmio gestito. Nella prima parte dell’anno (fino ad aprile), la categoria ha attratto 5,4 miliardi di euro di flussi in Europa, di cui circa un miliardo in Italia.
Il giusto peso
Gli analisti hanno sempre attribuito a questi strumenti un ruolo di nicchia nel portafoglio, perché si tratta di mercati volatili, talvolta poco trasparenti e liquidi. Inoltre, i regimi politici spesso sono instabili e ci possono essere disordini sociali. Ma è ancora così? I dati macro raccontano un’altra storia. Gli emergenti rappresentano “solo” il 12% dell’indice Msci globale, contro il 45% degli Stati Uniti e il 26% dell’Europa, ma contano per il 36% del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale, 14 punti percentuali in più degli Usa e 11 in più del Vecchio continente (dati del Fondo monetario internazionale).
Per John P. Calamos, fondatore dell’omonima società nel 1977, se usiamo il criterio del Pil per la costruzione del portafoglio e destiniamo il 50% alle azioni, gli emergenti dovrebbero rappresentare il 18% dell’equity, coerentemente con la quota che hanno nell’economia mondiale. Il fatto che la percentuale sia inferiore significa, per Calamos, che si stanno perdendo delle opportunità d’investimento. Questo vale soprattutto in prospettiva, in quanto le stime parlano di un incremento del Pil dei paesi in via di sviluppo al 42% del totale entro il 2017.
Tattici o strategici?
Calamos si spinge oltre, dicendo che gli emergenti sono pronti per diventare una componente centrale (core) nel portafoglio, mentre oggi l’impiego è tattico, ossia finalizzato a cogliere opportunità di guadagno aggiuntivo attorno al nocciolo duro dell’asset allocation.
Gli analisti di Morningstar mantengono un atteggiamento più prudente. Come si legge nelle fund analysis sui fondi azionari emergenti, si tratta di “strumenti di nicchia”, in quanto “la volatilità è troppo grande perché possano avere un ruolo centrale”. Questo vale ancora di più per i prodotti specializzati su singole regioni, ad esempio l’America latina, o Paesi (Cina).
E’ vero che in parte la volatilità può essere smussata dalla generalmente bassa correlazione tra questi mercati da un lato e quelli avanzati e valutari dall’altro. Tuttavia, per valutare a pieno i benefici della diversificazione è necessario un’analisi più approfondita delle correlazioni che tenga conto di caratteristiche quali i rapporti commerciali con l’estero, le politiche monetarie e fiscali, la dipendenza dal ciclo economico globale, ecc.
Il fattore rischio è ben presente a Calamos, il quale non solo evidenzia le incertezze economiche e politiche, ma anche la maggior volatilità legata agli ingenti flussi di investimento da parte dei gestori internazionali. “La principale sfida per chi ha un orizzonte di lungo periodo è la gestione del rischio”, dice. Core sì, dunque, ma solo se si sa come domare le onde agitate di queste aree.
Il dibattito tra allocazione tattica, nella quale il timing ha un ruolo fondamentale, e strategica è destinato a continuare. I piccoli investitori però devono essere consapevoli che azzeccare il momento di ingresso sui mercati emergenti è tanto difficile quanto gestire la volatilità. Come dire, “è un lavoro per mani esperte” ed eccedere può costare caro.
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