L’innovazione dell’industria degli Etf passa dal benchmark. È sulle caratteristiche dell’indice, infatti, che si gioca una delle sfide più importanti per il futuro.
Le alternative al cap weighted
Gli anglosassoni li chiamano Smart Beta o Advanced Beta. Si tratta delle strategie più recenti in termini di indici da replicare, che permettono di scomporre un indice tradizionale in sottoportafogli e di sovraponderare solo le parti desiderate. Un tempo erano riservate solo agli investitori istituzionali, ma ormai sono diversi i prodotti retail che offrono questo tipo di approccio.
Gli indici Smart Beta, in sostanza, sono quelli che superano la classica ponderazione basata sulla capitalizzazione di mercato (cap weighted), utilizzata dalla maggior parte dei benchmark e che, anni fa, era l’unica disponibile. Essa tiene conto della capitalizzazione di un titolo corretta per il flottante, ovvero della quantità di azioni che gli investitori possono acquistare liberamente sul mercato replicato. Il principale rischio è la concentrazione su un titolo o un settore. Inoltre, questi indici tendono ad accrescere il peso dei titoli più comprati, con conseguenti distorsioni a vantaggio delle aziende sopravvalutate (o dei paesi più indebitati se si parla di benchmark obbligazionari).
Gli equal e gli altri
Negli ultimi anni, quindi, sono nate altre metodologie nella costruzione degli indici, come quelle che ponderano i costituenti per il loro prezzo. Il titolo con la quotazione più alta avrà quindi l’impatto maggiore sulla performance totale. Un’ulteriore metodo, che più di recente è stato introdotto anche nel mercato italiano degli Etf, è l’equal weighted, in base al quale tutti i titoli hanno lo stesso peso, a prescindere dalla capitalizzazione; questo metodo porta più diversificazione, ma con la conseguenza che è necessario un frequente ribilanciamento, il che può essere costoso. Infine, esistono gli indici fondamentali, che utilizzano misure finanziarie indipendenti dal prezzo di Borsa, come ad esempio il book value, il cash flow, gli utili o i dividendi. In questo caso, il rapporto tra indicatori di bilancio e valore di mercato è generalmente superiore a quello degli indici a capitalizzazione.
Altre strategie innovative sono quelle Minimum variance, che non fanno assunzioni sui rendimenti ma mirano ad ottimizzare il portafoglio in termini di varianza, e si basano su dati storici relativi alla volatilità dei titoli e alla correlazione tra loro. Questo è un metodo particolarmente indicato per chi vuole coprirsi dai ribassi di mercato, magari rinunciando a inseguire i rialzi.
Etf attivi, strada tortuosa
Negli Stati Uniti è stato fatto un passo ancora successivo con la creazioni di alcuni Etf attivi, che hanno cioè l’obiettivo di battere il benchmark. Questi prodotti hanno la stessa composizione degli Etf passivi, solo che cercano di sovraperformare l’indice attraverso costanti cambiamenti del portafoglio da parte del gestore. Anche se potrebbe sembrare una contraddizione, il loro meccanismo di funzionamento non differisce dai cugini “passivi”: come questi ultimi, infatti, essi si limitano fondamentalmente a replicare un indice. È piuttosto la caratteristica dell’indice replicato a variare rispetto agli Etf tradizionali. Si tratta di panieri costituiti ad hoc, perciò detti fund friendly indexes, che in base al criterio di selezione dei titoli si distinguono in indici fondamentali e indici quantitativi. Gli Etf, di conseguenza, si conformano alle caratteristiche degli indici che replicano. La complessità sta nel fatto che la strategia sottostante l’Etf debba essere più chiara e trasparente possibile, in modo che i market maker possano offrire degli spread bid-ask più bassi possibili.
Fino ad oggi è valsa la regola che i trend nati negli Stati Uniti sono stati importanti in Europa, prima o poi, e quindi ci si potrebbe aspettare lo sbarco degli Etf attivi in futuro. Tuttavia, a causa della regolamentazione europea, ad oggi non è possibile quotare questi strumenti nel Vecchio continente.
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