Il modello di distribuzione finanziaria italiano non è fatto per gli Etf. Essendo basato sulle retrocessioni commissionali alle reti, favorisce i fondi tradizionali che hanno spese più elevate e sono quindi più redditizi per gli intermediari (raramente per gli investitori). Le pressioni per un cambiamento, però, sono forti, complici le riforme normative a livello europeo.
A fare da apripista è stato il Regno Unito, dove, dall’inizio del 2013 le retrocessioni sono state proibite. I consulenti, dunque, sono pagati dai clienti per il servizio prestato e non più dalle case-prodotto. Questo cambiamento crea nuove opportunità per i fondi indicizzati, che possono competere sullo stesso piano di quelli attivi tradizionali. Il costo, al posto della performance, diventa una variabile sempre più importante nel rapporto tra promotore e cliente. È nell’interesse del consulente, infatti, minimizzare tale variabile, aumentando le probabilità di buoni rendimenti. Il nuovo modello distributivo, inoltre, sposta l’attenzione sulle esigenze dei risparmiatori e la costruzione di un portafoglio adatto a raggiungere gli obiettivi di investimento.
L’esempio inglese
Nel dettaglio, la normativa inglese, nota come Rdr (Retail Distribution Review) entrata in vigore a gennaio si accosta alla Mifid (direttiva comunitaria sui servizi finanziari) prevedendo la revisione delle regole di distribuzione dei prodotti finanziari agli investitori finali. Non riguarda solo i fondi di investimento, ma anche altri strumenti d’investimento, quali polizze vita, titoli ed Etf. Il principio è quello di un collocamento dei prodotti di risparmio, attraverso consulenti qualificati, remunerati in modo trasparente dal cliente finale. Rispetto alla Mifid, la legge anglosassone non si limita a informare gli investitori dell'esistenza di un possibile conflitto di interessi nella distribuzione, ma vieta le retrocessioni, con cui le società di gestione remunerano le reti di vendita.
In Italia, focus sull’indipendenza
Oggi in Italia l'enfasi è sull'indipendenza del consulente. La Rdr, invece, ha il suo focus sul dato oggettivo, la consulenza. Non importa chi la fornisce, se una banca o una rete, purché la gamma di prodotti proposta sia sufficientemente ampia e composta anche da prodotti di case terze. L’Italia come il Regno Unito si caratterizza per la presenza di grandi reti di promotori, accanto agli sportelli bancari. I promotori in Italia hanno già fatto molto in termini di autoregolamentazione e con una normativa di questo tipo avrebbero la possibilità di far valere al meglio la loro qualifica con gli investitori finali, riducendo o eliminando possibili conflitti di interesse. Lo scenario cambierebbe molto e, nelle intenzioni del legislatore, porterebbe a un aumento della qualità dell'offerta. Anche per le case prodotto i cambiamenti sarebbero significativi, perché verrebbero meno gli accordi di retrocessione con le reti di vendita e quindi si verrebbero a creare classi retail con commissioni più basse.
Dal punto di vista dei costi, i fondi passivi come gli Etf (Exchange traded fund) sono generalmente (ma non sempre) avvantaggiati. Le commissioni annue di questi replicanti sono basse perché non richiedono team di gestori e analisti che individuino, ricerchino e investano in società le cui azioni si pensa possano sovraperformare il benchmark. Con fondi tipicamente gestiti attivamente, il costo di gestione del portafoglio si aggira in media all’1,18% annuo (al netto delle commissioni e di altri oneri); invece, per un fondo passivo la commissione media di gestione è di 0,27%, se non anche meno. La costruzione di un portafoglio, però, non deve basarsi esclusivamente sui bassi costi, ma anche sulla selezione di strumenti di qualità coerenti con gli obiettivi degli investitori. Ed è per questo che i clienti potrebbero essere disposti a pagare (anche se vari studi dimostrano che la consulenza a pagamento è ancora poco percepita come un “bisogno” in Italia).
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