Da “tutti insieme appassionatamente”, la parola d’ordine delle maggiori Banche centrali del mondo sembra essere diventata “ognun per sé”. E così, mentre la Bank of Japan si lancia in un piano di allentamento monetario per far uscire il paese dalla deflazione e arrivare a un livello di inflazione del 2%, la Federal Reserve ventila l’idea di uscire dal Quantitative easing (Qe) con cui acquista Treasury e bond ipotecari immettendo nel sistema finanziario Usa 85 miliardi di dollari al mese. La Banca centrale europea, intanto, campa ancora sulla promessa fatta nel luglio scorso di fare tutto il possibile per salvare l’euro e, a parte qualche monito lanciato dal presidente Draghi sulla situazione del Vecchio continente e l’idea di continuare con il taglio dei tassi, fa poco.
Un bel cambiamento rispetto al periodo in cui gli istituti monetari coordinavano le politiche per cercare di rispondere agli attacchi della crisi finanziaria (prima quella scatenata dai mutui americani di scarsa qualità e poi quella del debito europeo).
I rischi americani
La situazione più rischiosa, al momento, sembra essere quella in cui si trova la Fed. E i suoi membri ne sono consapevoli. Secondo le minutes della riunione del Federal open market committee (il braccio operativo della Banca centrale Usa) ci sono tre pericoli fondamentali. Primo: il pericolo della stabilità finanziaria. Gli investitori contano su nuove iniezioni di liquidità mentre la Banca ripone la siringa. Secondo: pericoli per il funzionamento del mercato. La Fed si trova in cassa troppi titoli di debito, lasciando a corto gli operatori. Terzo: problemi ai bilanci dell’istituto monetario che a quel punto avrebbe le polveri bagnate. Tre motivi sufficienti per attuare una exit strategy dal piano di aiuti che però si scontrano con la possibilità di un ulteriore deterioramento della congiuntura americana che imporrebbe alla Fed di continuare a pompare soldi. “Spinti dalle manovre di quantitative easing, gli investitori vogliono sempre di più dalla banca centrale”, spiega uno studio firmato da Tony Crescenzi, Tadashi Kakuchi e Ben Emons, gestori di Pimco. “Gli operatori che fino ad ora hanno beneficiato di queste manovre dovrebbero ricordarsi che ogni azione ha delle conseguenze e che ai prezzi degli asset di investimento serve molto di più che le azioni di qualche avventuroso banchiere centrale”.
In Giappone occhio al debito
Tutti problemi che, per il momento, non sembrano preoccupare il Giappone. Da quando il premier Shinzo Abe si è insediato inaugurando la sua aggressiva politica economica (la cosiddetta Abenomics,), fatta di ingenti investimenti statali, iniezioni di liquidità Fed style e riforme strutturali per far fronte all’invecchiamento della popolazione, la Borsa nipponica ha guadagnato più del 40% (fino a fine maggio) mentre lo yen ha perso il 20% contro il dollaro dando una spinta alle esportazioni e, di conseguenza, alla produzione industriale. Tutto bene, quindi? No. “Il Giappone ha cercato così a lungo e inutilmente di stimolare la sua economia che ha accumulato un debito pubblico enorme”, spiega uno studio firmato da Milton Ezrati, capo economista di Lord Abbett, una delle case di investimento indipendenti più antiche d’America. “Le nuove misure di stimolo non faranno altro che gonfiare questa voce portando il deficit dal 220% rispetto al Pil al 240%”.
E se anche c’è un dibattito aperto su quanto debito pubblico uno stato possa sopportare la situazione del Sol levante lascia pochi spazi di discussione. “Fino ad ora i risparmi delle famiglie, investiti in larga parte in bond nipponici hanno permesso all’arcipelago di finanziarsi agevolmente. Ma con l’invecchiamento della popolazione questo sistema funziona sempre meno. Se dieci anni fa i giapponesi investivano il 10% dei loro risparmi in obbligazioni, oggi siamo a livelli del 3% o meno. In una situazione del genere un minimo aumento dei tassi di interesse renderebbe necessario utilizzare tutti gli incassi delle tasse per onorare le obbligazioni”. La questione fiscale non è di poco conto anche per altri motivi. In base a una legge entrata in vigore nel 2012 per dare una mano all’economia, nel 2014 ci sarà un aumento delle tasse di tre punti percentuali su alcuni beni di consumo e di altri due nel 2015. L’ultima volta che c’è stato un provvedimento del genere (era il 1997), il Giappone è entrato immediatamente in recessione. Abe, per il momento, non ha toccato il provvedimento, riservandosi di farlo dopo la pubblicazione dei dati sul secondo trimestre fiscale.
L’Europa spera
Chi guarda con interesse a quello che succede in Giappone è l’Europa. La svalutazione dello yen (che ha avuto fra gli altri effetti un apprezzamento dell’euro) sta preoccupando seriamente la Germania che vede diventare meno competitivi i suoi beni (e in molti settori i tedeschi sono diretti concorrenti del Sol levante). “Questo potrebbe spingere la Banca centrale europea a svalutare la moneta unica”, spiega un report di Scott Minerd, responsabile degli investimenti di Guggenheim Partners. “Una scelta del genere avrebbe il doppio vantaggio di spingere l’export dei paesi più forti dando una mano anche ai periferici. Il tutto senza provocare le proteste di Berlino sempre più riluttante ad aiutare gli stati deboli della regione. Uno sviluppo di questo tipo, unito alla notizia che l’Unione europea non darà seguito ad altre misure di austerità potrebbe portare a una modesta crescita congiunturale nel giro di sei-dodici mesi”.
Le scelte operative
Dal punto di vista operativo, intanto, secondo i money manager sarebbe meglio non appoggiarsi troppo sulle spalle delle Banche centrali. L’asimmetria del profilo di rischio/rendimento, che deriva dalla possibilità di errori di politica monetaria in un quadro di bassa crescita e di indici sul debito elevati e in aumento nelle economie avanzate, sta a significare che il tradizionale approccio obbligazionario long-only esporrà gli investitori a forti perdite quando verranno meno le ingenti iniezioni di liquidità delle banche centrali”, spiega in un commento Jan Straatman, responsabile investimenti di Lombard Odier Investment Managers. “Un approccio cosiddetto Total rate of return può invece trarre vantaggio dai rally garantendo, al tempo stesso, che all’aumentare dei tassi il portafoglio continui a offrire un rendimento positivo. Questo può essere fatto con un’esposizione a obbligazioni quinquennali con fondamentali solidi, dove il rischio di una scadenza più breve è coperto da swap. Oppure con l’esposizione alla domanda crescente di obbligazioni societarie a maggiore rendimento ma con rating più bassi”.
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