I fondi flessibili faticano a stare al passo con un indice composto al 50% di azioni e al 50% di obbligazioni. Secondo un’analisi realizzata da Ali Masarwah, analista di Morningstar, sui comparti europei che non hanno vincoli nell’allocazione tra le diverse classi di investimento, solo il 2,2% è riuscito nell’impresa negli ultimi tre anni e il risultato non cambia significativamente su orizzonti temporali più estesi. (Leggi l’analisi completa e i criteri utilizzati).
I flessibili sono diventati popolari negli ultimi anni, perché sono stati proposti agli investitori come strumenti adatti a navigare nelle acque tempestose dei mercati. Dall’inizio del 2013, i flussi verso questa categoria in euro sono stati di oltre 9,6 miliardi in Europa (dati al 31 luglio). Tra i fondi allocation, solo i prudenti hanno registrato risultati migliori. Il successo in termini di raccolta si scontra, però, con le magre performance mediamente ottenute finora.
Cosa non ha funzionato
L’aspetto più interessante della ricerca, tuttavia, non riguarda il confronto tra la performance di questi prodotti e un benchmark bilanciato (dal momento che questa tipologia di prodotti non ha come obiettivo quello di battere l’indice), bensì il comportamento dei gestori nelle diverse fasi di mercato. In particolare, Masarwah ha messo a confronto la variazione della quota azionaria rispetto all’andamento dell’indice Msci World, scoprendo che la flessibilità nella strategia di gestione non si è tradotta, nella maggior parte dei casi, in operazioni decorrelate dalla Borsa. Al contrario, i manager tendono a “rincorrere” gli indici. In quattro importanti momenti di svolta degli ultimi tre anni, il comportamento è stato pro-ciclico (vedi grafico).
Ad esempio, la componente azionaria è stata ridotta dopo la catastrofe nucleare di Fukushima nel marzo 2011 ed è stata successivamente aumentata quando è risultato chiaro che quell’evento non avrebbe impattato in modo significativo i mercati finanziari. L’incremento ha coinciso con lo scoppio della crisi nell’area euro che ha colto i gestori del tutto impreparati. A fine luglio 2011, la percentuale azionaria (in termini di valori mediani) era del 43,9%. A settembre dello stesso anno scese a 32,3%, ma nel frattempo le Borse del Vecchio continente avevano registrato perdite a due cifre. Questo significa che i gestori hanno venduto i titoli, mentre i prezzi crollavano precipitosamente.
Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, l’intervento della Banca centrale europea (Bce) con il programma Ltro (Long term refinancing operation), che consiste in operazioni straordinarie di rifinanziamento a lungo termine degli istituti di credito, diede fiducia ai mercati e la quota di equity tornò ad aumentare. I manager hanno rincorso le Borse anche nei mesi successivi, fino alla recente volatilità generata dai timori della conclusione della politica ultra-accomodante della Federal Reserve.
Market timing impossibile
L’analisi mostra che il comportamento pro-ciclico dei gestori ha portato a comprare quando i prezzi salivano e a vendere in fasi di discesa, una strategia che ha determinato performance deludenti.
il comportamento pro-ciclico dei gestori ha portato a comprare quando i prezzi salivano e a vendere in fasi di discesa,
Come abbiamo recentemente scritto, il market timing è difficile da realizzare con successo. In più, produce un certo attivismo da parte dei gestori, che fa aumentare i costi di transazione, impoverendo ulteriormente i rendimenti. Si potrà obiettare che tre anni sono un periodo relativamente breve di osservazione per trarre conclusioni significative ed è sicuramente vero, però lo studio offre spunti interessanti sui limiti di questi fondi. Per altro, anche altre ricerche Morningstar erano giunte a conclusioni simili in passato.
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