La ripresa economica nei mercati sviluppati è stata finora caratterizzata dall’assenza di pressioni inflazionistiche. Anzi, in particolar modo nella zona euro, i rischi di cadere in una deflazione sono diventati l’argomento più caldo. Misurato in termini fondamentali, l’indice dei prezzi al consumo dell’Eurozona è rallentato negli ultimi mesi a livelli che molti analisti considerano incompatibili con l'obiettivo di stabilità dei prezzi della Banca centrale europea (Bce). Perciò le voci che chiedono un ulteriore allentamento monetario sono in aumento, spinte dalla paura che l’Eurozona possa lentamente scivolare in una trappola deflattiva di tipo giapponese.
I segnali di una discesa dei prezzi sono stati particolarmente visibili nei paesi europei periferici. Una buona parte di questa tendenza può essere spiegata con l’eliminazione di alcuni beni dal paniere di riferimento, la diminuzione dei prezzi d’importazione di alcune materie prime e la relativa forza dell’euro. Inoltre, anche la bassa domanda domestica ha certamente pesato.
Tuttavia, per la Bce, le pressioni disinflazionistiche nella periferia dell’Eurozona non sono che la conseguenza naturale del riequilibrio della competitività di costo tra i paesi periferici e quelli centrali, in una situazione in cui la svalutazione della moneta non è più un’opzione. In altre parole, questo effetto era prevedibile. E in effetti, questo è stato il messaggio del presidente della Bce Mario Draghi durante la conferenza stampa post-riunione di febbraio. Tuttavia, anche accettando la logica della svalutazione interna, resta il fatto che le pressioni disinflazionistiche si stanno espandendo anche attraverso le principali economie della zona euro, le quali stanno sperimentando un calo dei prezzi all'importazione.
La questione è se una bassa inflazione possa eventualmente trasformarsi in una deflazione conclamata. La Bce, evidentemente, non crede a questa eventualità. Riconosce però l’alta probabilità di un periodo prolungato di inflazione molto bassa, pur sottolineando la sua disponibilità ad agire (attraverso un ulteriore allentamento della politica monetaria). Tuttavia, Francoforte sottolinea la conferma delle aspettative di inflazione a medio termine intorno al suo obiettivo di stabilità dei prezzi e l'imminente ripresa dei consumi privati nei paesi periferici come prova che, a loro avviso, la deflazione rimane un rischio di coda. I critici, tuttavia, sostengono che la Bce potrebbe sottovalutare pericolosamente la velocità con cui le aspettative sui prezzi possono cambiare in un contesto di continua disinflazione, in modo particolare nelle economie che hanno subito una vasta compressione del reddito privato e che sono affette da alto tasso di disoccupazione.
Quello che sembra chiaro è che l'inflazione non venga vista come un rischio importante nelle prospettive economiche della zona euro a medio termine. Di per sé, questo ha ripercussioni sull’asset allocation degli investitori con portafogli eurocentrici. Tuttavia, le ripercussioni sarebbero diverse a seconda della reazione che si avrebbe davanti alla contrapposizione “deflazione vs bassa inflazione”. Ai fini di questo articolo ci concentreremo sulla parte a reddito fisso, evidenziando come la flessibilità degli Exchange traded fund (Etf) può essere sfruttata per implementare diverse strategie.
Gestire la protezione dall’inflazione
Un ovvio punto di partenza sarebbe quello di valutare l’esposizione complessiva del portafoglio agli strumenti che proteggono dall’inflazione. Gli investitori che condividono la previsione “bassa inflazione prolungata”, potrebbero semplicemente accontentarsi di sottopesare la loro esposizione attuale, se non l'hanno ancora fatto. Infatti, secondo i nostri dati, gli Etf europei che replicano indici a reddito fisso di tipo inflation-linked hanno subito deflussi netti stabili negli ultimi quattro anni. Alla fine del 2013, il patrimonio investito in questi Etf è appena sopra i 900 milioni di euro, quasi la metà degli 1,7 miliardi di fine 2010.
Nel frattempo, gli investitori che cercano di giocare la carta deflazione potrebbero trarre vantaggio da una delle caratteristiche chiave degli Etf, cioè la possibilità di scambiarli sui mercati come le azioni, e di venderli allo scoperto, o posizionarsi short (cioè guadagnare se l’indice replicato scende). Questa non è una pratica molto utilizzata dagli investitori comuni, ma si può fare. In realtà, molti investitori istituzionali sono short sellers di Etf: o perché hanno bisogno di coprire le posizioni lunghe (uso tattico), o perché vogliono scommettere che il prezzo dell’Etf cadrà (uso speculativo).
Per le specificità del nostro caso, se le pressioni deflazionistiche dovessero radicarsi nella zona euro, allora ci si potrebbe aspettare che il valore degli Etf obbligazionari indicizzati all’inflazione crolli. In tale situazione, la vendita allo scoperta di Etf inflation-linked dell’Eurozona potrebbe essere un modo per spingere i rendimenti del portafoglio.
Tuttavia, la vendita allo scoperto a fini speculativi, anche per investitori esperti, non è senza pericoli. Per cominciare, in questo caso, si punterebbe sull’inattività, o sull’inefficacia, della Bce, che è un’ipotesi piuttosto audace. Ma se questo non bastasse, ci sarebbe un problema tecnico a prendere in considerazione, e cioè che i titoli di Stato della zona euro indicizzati all’inflazione hanno un limite alla deflazione applicata al capitale. Ciò significa che il rimborso del capitale al valore nominale è garantito. Come tale, il potenziale di perdita di queste obbligazioni, e quindi degli Etf che li replicano, potrebbe essere più limitato di quanto ipotizzato.
Gestire la duration
La duration misura la sensibilità dei prezzi dei bond ai cambiamenti dei tassi d’interesse, una relazione sempre inversa (i prezzi vanno su quando i tassi vanno giù e viceversa). Con l’inflazione che sembra solo una remota ipotesi, i tassi d’interesse non saliranno certo nel breve periodo. Potrebbero restare stabili o scendere ulteriormente. Questa possibilità potrebbe essere un'occasione per rivedere la micro-gestione della duration del portafoglio. E anche qui gli Etf possono aiutare.
Gli Etf a reddito fisso offrono agli investitori un’esposizione a segmenti di scadenza delimitati (ad esempio: 1-3 anni, 3-5 anni, 5-7 anni, 7-10 anni, 10 anni). L’andamento della curva dei rendimenti rende la gestione della duration un compito abbastanza semplice. Inoltre, la micro-gestione della duration è una strategia che si applica benissimo al concetto di investimento core-satellite. Infatti, si può mantenere l’esposizione al più ampio mercato obbligazionario nella parte core di un portafoglio di investimento, mentre si può fare uso di Etf per specifici segmenti di scadenza per modificare la duration della parte satellite. Per definizione, questa sezione dovrebbe essere molto più piccola di quella core, centrale, contribuendo così a ridurre i costi di transazione.
Gli investitori che condividono la previsione a “bassa inflazione”, tenderebbero probabilmente verso una strategia di diminuzione della duration a lungo termine, dato che i tassi di interesse dovrebbero prima o poi salire. Così, a seconda della duration iniziale del portafoglio, si potrebbero usare Etf concentrati sui segmenti 1-3 o 3-5 anni.
Nel frattempo, gli investitori che desiderano scommettere sulla deflazione, potrebbero aumentare tatticamente la duration, anche se per un breve periodo, in modo da trarre profitto dal taglio previsto dei tassi di interesse. Ancora una volta, a seconda della duration del portafoglio, questo potrebbe essere realizzato con posizioni tattiche sugli Etf dedicati al segmento 7-10 anni.
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