In Italia, Etp (Exchange traded product) e promotori finanziari non hanno ancora trovato la “giusta” intesa. Borsa italiana è tra le più vivaci piazze finanziarie europee di negoziazione, ma l’intermediazione dei replicanti passa marginalmente attraverso le reti. Le ragioni sono diverse, tra cui la struttura distributiva dominata dai grandi gruppi bancari, il sistema di remunerazione delle reti, che è basato ancora in larga parte sulle retrocessioni delle commissioni, la mancanza di emittenti italiani e il numero contenuto di consulenti indipendenti fee-only.
Reti, raccolta su fondi e polizze
Le statistiche di Assoreti, l’associazione dei network di promotori, rivelano che la raccolta è realizzata prevalentemente nei prodotti di risparmio gestito tradizionali, come i fondi comuni, le polizze vita e previdenziali. In particolare, il contributo delle reti al sistema degli Oicr (organismi di investimento collettivo del risparmio) è pari a circa il 38% dei volumi totali. Non esistono al momento statistiche dettagliate su quale ruolo abbiano gli intermediari nel promuovere gli Etp, tuttavia i dati di Borsa italiana sulle dimensioni dei contratti lasciano intendere che gli investitori privati conoscano e usino i replicanti. Non a caso, il mercato continua a fare gola agli emittenti, che sono una dozzina in tutto, per un totale di circa 840 strumenti quotati. Gli Etf più scambiati sono quelli sul Ftse Mib, in particolare a leva e short, che permettono di scommettere sul rialzo o in modo inverso all’andamento dell’indice.
Etf e fai-da-te
Sondaggi svolti in passato da Morningstar mostrano che a utilizzare i prodotti passivi sono soprattutto individui che gestiscono le finanze in proprio, senza il supporto di un promotore finanziario, utilizzando le piattaforme online di banche e Sim. Per gli emittenti, il mercato più redditizio è quello istituzionale dei gestori di fondi e patrimoni, però alcuni di loro hanno lanciato recentemente iniziative per il retail. iShares (gruppo BlackRock), ad esempio, ha stretto un accordo con Poste Italiane che permette l’acquisto via web attraverso BancoPosta dei suoi Etf quotati su Borsa italiana. A settembre 2013, invece, Ubs aveva deciso di abbattere il Ter (Total expense ratio) delle classi A dei suoi Etf, per riservare a privati, private banker e consulenti lo stesso trattamento degli istituzionali.
L’esempio inglese
Le iniziative dei singoli emittenti, tuttavia, non bastano. La riforma inglese, nota come Retail distribution review, mostra che un cambiamento normativo può fare la differenza. Le nuove regole, entrate in vigore a gennaio del 2013, proibiscono le retrocessioni commissionali, facendo sì che i promotori siano pagati esclusivamente dal cliente finale per la consulenza offerta. In un contesto di questo tipo, gli Etp, che sono strumenti generalmente a basso costo, risultano avvantaggiati. Eliminare le retrocessioni significa spostare il focus dalla vendita di un prodotto alla fornitura di un servizio di consulenza sul portafoglio, con conseguente valorizzazione di chi lo fa in modo competente e qualificato. Secondo un sondaggio di Investec Wealth & Investment a un anno dal lancio, il 43% dei consulenti inglesi ha ammesso che la riforma ha migliorato la qualità del servizio offerto ai risparmiatori, anche se mantenere i livelli di profittabilità è stato difficile. Il 2013, comunque, è stato di transizione e un bilancio più equilibrato potrà farsi solo più avanti.
Il monito Consob
In Italia, la nuova normativa inglese è stata fonte di dibattito e confronto. Il meccanismo delle retrocessioni commissionali rappresenta ancora oggi un’importante voce per le reti di promozione finanziaria e le banche. La Consob, l’autorità di vigilanza sui mercati, ha lanciato più volte il monito sul tema, l’ultima lo scorso autunno. Nel Piano strategico 2013-2015, ha inserito tra i rischi “l’assetto e i modelli di business dell’industria dell’intermediazione mobiliare, fortemente orientati alla ‘vendita del prodotto’, più che alla ‘fornitura di un servizio’”. Per la Commissione, questo sistema rende “più complessa l’adesione sostanziale al principio di servire al meglio gli interessi dei clienti e amplifica i conflitti di interessi di cui gli operatori bancari, spesso anche emittenti, sono portatori”. Inoltre, esso “è alla base della scarsa diffusione e del basso livello qualitativo dei servizi di consulenza agli investitori retail, che a loro volta creano condizioni di contesto che accrescono il rischio di comportamenti non conformi o di adesione meramente formalistica alla Mifid (la direttiva comunitaria sui servizi di investimento, Ndr)”. La Consob ha, quindi, inserito tra gli obiettivi strategici la vigilanza sia sull’attività di distribuzione sia sulle pratiche commerciali delle società di gestione.
Italia indietro
Dal canto suo, l’Anasf, l’associazione nazionale dei promotori finanziari, ha proposto un contratto unico “europeo” (ispirato ai principi della Mifid), che dovrebbe risolvere alcune questioni ancora aperte legate alla professione, tra cui il conflitto di interesse e, di conseguenza, la modalità di remunerazione dei promotori. Per quanto riguarda, invece, i consulenti indipendenti, l’Italia è indietro, non solo perché il numero è limitato (le stime parlano di circa 300 persone e società di questo tipo, contro gli oltre 20 mila promotori), ma anche perché non è ancora stato istituito l’Albo, previsto dal 2008, che, secondo l’ultima proposta del Ministero dell’economia e delle finanze, dovrebbe essere accorpato a quello dei promotori finanziari, con un unico organismo che vigilerà su entrambe le professioni.
L’articolo nella versione integrale è stato pubblicato su FundPeople Italia di febbraio.
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