Il barile non è più quello di una volta

Le previsioni sull'andamento del petrolio hanno sempre fatto i conti con l'America per la domanda e con l'Arabia per l'offerta. Oggi i rapporti sono cambiati. La parte del leone la fanno gli emerging e i paesi ex-Opec. Le valutazioni sono un po' alte, ma ci sono delle opportunità. 

Marco Caprotti 28/05/2014 | 15:55
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Crescita stimata degli Stati Uniti più andamento previsto dei paesi sviluppati, tutto diviso per le riserve disponibili. Questo, in estrema sintesi, è stato il sistema con cui per decenni gli analisti hanno calcolato e cercato di prevedere i consumi di petrolio e i conseguenti andamenti del prezzo del barile. Un sistema americano-centrico che rischia di non essere più al passo con gli sviluppi del mercato.

Gli Usa non stanno al centro
Prima di tutto perché gli Stati Uniti stanno raggiungendo l’indipendenza energetica grazie a nuove tecnologie come il fracking e le trivellazioni orizzontali che permettono di estrarre più oro nero dal sottosuolo Usa. Secondo i dati dell’International Energy Agency (Iea), la produzione yankee entro il 2015 è destinata ad aumentare a un ritmo mai visto nell’ultimo decennio. Nel frattempo, si vede una diminuzione della domanda da parte degli Usa. Merito di automobili più efficienti dal punto di vista dei consumi e dell’utilizzo di gas naturale per il riscaldamento domestico e per le esigenze energetiche delle imprese.

Intanto sta aumentando la domanda da parte dei paesi in via di sviluppo. Secondo le proiezioni dell’Iea quest’anno la richiesta maggiore di petrolio arriverà dalla Cina (+3,5%), dal Brasile (+2,9%) e dall’India (+2,4%). A questi dati va aggiunta comunque la domanda da parte dei paesi Ocse (escludendo però gli Stati Uniti) arrivando a un totale di 2 milioni di barili al giorno per i prossimi cinque anni. “Una richiesta pari a quella degli Stati Uniti negli ultimi quattro anni e che le riserve globali di oro nero potrebbero far fatica a soddisfare”, spiega uno studio di JH Investments.

Cambia l’offerta
Sempre che, beninteso, le stime sui giacimenti, siano ancora affidabili. Negli ultimi 40 anni quando si è parlato di disponibilità di petrolio si è sempre fatto riferimento all’Opec (il cartello che riunisce alcuni produttori con, in testa, l’Arabia Saudita). Ma le cose stanno cambiando. Dal 1998, la produzione non Opec ha preso sempre più piede e oggi rappresenta il 60% degli oltre 90 milioni di barili consumati nel mondo ogni giorno. L’Arabia Saudita, nel frattempo, con i suoi 10 milioni di barili riempiti ogni giorno, sembra aver raggiunto la sua capacita estrattiva massima. Senza contare che una parte di quel prodotto viene utilizzato per usi domestici. Il quadro è complicato dalle tensioni geopolitiche in molti paesi mediorientali che rendono le previsioni sulle forniture ancora più difficili.

Le scelte operative
In una situazione del genere, come si devono muovere gli investitori interessati agli asset energetici? “In un mondo come quello petrolifero che sta cambiando diventa sempre più difficile fare delle previsioni”, spiega Jason Stevens, analista di Morningstar. “La scelta migliore è quella di guardare alle valutazioni. I titoli puramente dipendenti dal petrolio in questo momento – e alla luce degli sviluppi di mercato che si stanno vedendo soprattutto negli Usa – ci sembrano sopravvalutati. I prezzi, invece, diventano interessanti quando si parla di società più orientate verso il gas, come Apache e Devon Energy. Nel complesso, comunque, il segmento energetico è sottovalutato del 3% rispetto ai nostri target price. Ma in questa situazione il nostro suggerimento è di muoversi su singoli titoli, ad esempio nel segmento dei servizi, piuttosto che lanciarsi sull’intero comparto”. 

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Marco Caprotti

Marco Caprotti  è Giornalista di Morningstar in Italia.

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