Il comparto minerario si mette alle spalle il tradimento delle economie emergenti. Dopo aver raggiunto il picco di investimenti tra il 2011 e il 2012 (per rispondere alla crescente domanda proveniente dalla Cina e dagli altri paesi asiatici) le aziende del settore hanno sofferto il rallentamento della congiuntura globale ed in particolare del Dragone, intenzionato ad iniziare la sua conversione verso un economia maggiormente orientata ai consumi. Di qui la caduta del prezzo delle commodity e con essa delle quotazioni azionarie dei titoli del settore. Nei tre anni tra il 2011 e il 2013, l’indice DJ Global Basic Materials ha perso oltre il 20% del suo valore di mercato, mentre da inizio anno il rendimento è di poco inferiore al 6%. Il peggio è alle spalle è sembra essere arrivato il momento di tornare a guardare con interesse ai metalli industriali. Il segreto del successo di questi investimenti, tuttavia, passa attraverso importanti accorgimenti.
Le regole dell’investitore
L’andamento dei titoli di queste società è assolutamente dipendente dal prezzo delle materie prime. Ma quello che i risparmiatori devono ricordare è che, sebbene la domanda di tutte le materi prime sia più o meno condizionata dall’andamento della congiuntura globale, ogni mercato è subordinato a specifici fattori che fanno sì che il prezzo di ogni commodity sia slegata dall’andamento delle altre. Alcune volte, quindi, risulta più conveniente concentrare la propria attenzione su società produttrici di una sola materia prima la cui domanda è in ascesa piuttosto che puntare sui grossi player che hanno una produzione assai diversificata.
Il consiglio migliore che si può dare all’investitore, comunque, è quello di focalizzare l’attenzione sulle società che hanno una posizione di vantaggio competitivo (Economic moat), ovvero che riescono a generare in maniera continuativa nel tempo rendimenti superiori al costo del capitale. Nel settore delle materie prime la principale fonte di Economic moat è quella legata al costo, cioè alla capacità di produrre a prezzi più bassi rispetto alla concorrenza in modo da mantenere un’adeguata profittabilità anche quando le quotazioni delle materie sono soggette a contrazioni di breve periodo.
Vince il costo più basso
Per produrre a basso costo un’azienda mineraria deve possedere innanzitutto asset di qualità. Questo è un aspetto molto importante e che ha a che fare con le caratteristiche geologiche del sito estrattivo. Sulle quali, quindi, non si può intervenire e che non possono essere replicate dai concorrenti. Ci sono tre regole fondamentali nel valutare le attività di una compagnia mineraria: 1) più grandi sono le dimensioni delle miniere, più elevate sono le economie di scala che si possono generare e di conseguenza più bassi sono i costi unitari di produzione; 2) maggiore è la concentrazione del minerale nella roccia, più elevata sarà la quantità di materiale estratto; 3) alti costi nella lavorazione del minerale finiscono per incidere sui margini di profitto.
La seconda componente più rilevante in termini di costi è quella legata agli oneri di trasporto. Ne risulta che le compagnie saranno avvantaggiate dall’avere impianti di produzione vicini ai siti estrattivi, nonché prossimi ai collegamenti marittimi e ai mercati di sbocco.
Scorte e rischi geopolitici
Avere bassi costi di produzione è, però, condizione necessaria ma non sufficiente per garantirsi una posizione di vantaggio sostenibile nel tempo. Le compagnie minerarie, infatti, devono mantenere un adeguato ammontare di riserve, in modo da poter sostenere bassi costi di produzione anche nel lungo periodo. Le riserve, tuttavia, sono soggette a esaurimento. Per questo le aziende devono provvedere a nuovi investimenti per migliorare lo sfruttamento dei siti minerari esistenti o per acquisirne dei nuovi.
Altro fattore molto importante è anche relativo alla localizzazione dei siti estrattivi. Essere presenti in un paese dal forte rischio geopolitico rappresenta una forte minaccia per la sostenibilità della produzione futura.
Titoli a sconto
Al momento il settore resta ancora sottovalutato dal mercato e anche i titoli di società leder come BHP Billiton, Rio Tinto e Vale, alle quali i nostri analisti riconoscono una posizione di vantaggio competitivo, sono negoziate a sconto rispetto al nostro prezzo obiettivo.
BHP, il vantaggio di essere australiana
BHP, ad esempio, detiene una larga quota dei siti minerari più grandi e a basso costo del mondo. Per molti di essi è possibile espandere la capacità produttiva e la società australiana sta già investendo miliardi di dollari a questo scopo. Negli ultimi tre anni ha incrementato la produzione di ferro del 50% e ha finanziato un progetto per aumentare del 10% la capacità dei siti in Australia, entro il 2016. Le elevate dimensioni le permettono non solo di realizzare significative economie di scala, ma anche di riuscire ad attirare i clienti più rilevanti, le migliori figure professionali, nonché il sostegno dei governi in cui le miniere sono ubicate. A questo poi si aggiunge la vicinanza dei siti produttivi ai mercati strategici dell’Asia. Ad eccezione del ferro, BHP non ha potere contrattuale sui prezzi di vendita delle materie prime prodotte. Tuttavia i bassi costi di produzione le permettono di mantenere alti margini di profitto. La sua offerta e la presenza geografica sono ben diversificate e questo le permette di ridurre la componente di rischio geopolitico e quella legata alla fluttuazione del prezzo delle commodity. I nostri analisti stimano una crescita media del fatturato del 4,6% per i prossimi cinque anni e un miglioramento del margine operativo di ben 800 punti base, dall’attuale 30,4% al 38,5% nel 2018, e valutano il titolo dell’Adr (American depositary receipt) quotato sul Nyse di New York 80 dollari per azione. Circa il 10% superiore alle attuali quotazioni di mercato.
Rio Tinto, meno diversificata ma più a sconto
Nonostante abbia costi di produzione tra i più bassi del settore, tali da garantirgli una elevata profittabilità, Rio Tinto ha una struttura meno diversificata rispetto a BHP. L’85% del suo valore deriva dalla valutazione delle attività legate alla produzione di ferro e alluminio, mentre il rame rappresenta l’11% del totale. La presenza nel business dell’alluminio si è rafforzata grazie all’acquisizione del gruppo Alcan (2007).
Sebbene tale operazione sia stata giudicata da alcuni analisti di mercato come uno dei peggiori affari nel settore minerario (con un premio di circa il 65% riconosciuto agli azionisti della società acquisita considerato troppo alto), la forte crescita del prezzo dell’ossido di alluminio e della bauxite, due dei principali derivati dell’alluminio, promettono di migliorare il rendimento di questo segmento. I nostri analisti prevedono un significativo miglioramento dei margini di profitto, anche grazie al rialzo delle quotazioni delle materie prime. L’obiettivo di prezzo stimato per le azioni Rio Tinto, pari a 41,65 sterline, evidenzia un potenziale apprezzamento del titolo della compagnia anglo-australiana di circa il 20%.
Vale, prima nel ferro
Sul futuro di Vale il mercato sembra essere scettico. Le azioni della compagnia brasiliana sono scambiate con uno sconto superiore al 25% rispetto al nostro prezzo obiettivo che è pari a 19 dollari. Vale è senza dubbio la meno diversificata delle tre aziende prese in esame. Negli ultimi dieci anni ha cercato di colmare il divario con le altre big del comparto minerario investendo maggiormente nella produzione di ferro, nickel, rame e carbone, ma il risultato è stato solo una maggior complessità operativa. Il management ha quindi deciso di fare un passo indietro e di concentrare gli sforzi sul core business del ferro, in cui resta il primo produttore al mondo, pianificando di far salire la produzione annua dalle attuali 300 milioni di tonnellate a 450 milioni di tonnellate nel 2018.
L’azienda vanta i costi di produzione tra i più bassi del settore e questo le permette di mantenere una elevata profittabilità nonostante sia penalizzata, rispetto alle concorrenti australiane, da costi di trasporto molto elevati nelle transazioni commerciali con la Cina. I nostri analisti prevedono che dopo i prossimi due anni, in cui i ricavi registreranno una nuova flessione, il fatturato tornerà a crescere nei successivi tre a un tasso medio del 10%.
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