“Cinque cose che i gestori di fondi obbligazionari flessibili non vi hanno detto” è il titolo di una recente analisi condotta da Eric Jacobson, analista di Morningstar, su questi comparti che hanno guadagnato grande popolarità tra gli investitori negli ultimi anni, tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa (Italia compresa).
Morningstar ha introdotto la categoria nel novembre del 2010, in risposta al lancio di prodotti flessibili da parte delle società di gestione. Essi hanno in comune la libertà del manager nell’investimento in diverse tipologie di obbligazioni, con la possibilità di concentrare il rischio su determinate classi di attivi, come ad esempio i titoli di minor qualità o i mercati emergenti. Si stima che da inizio anno quelli ottimizzati in euro abbiano raccolto oltre 8 miliardi, cui si aggiungono circa 3,6 miliardi dei comparti in dollari.
Per Jacobson, “Alcuni fondi sono migliori di altri, ma sicuramente non sono la cura per tutti i mali”. L’analista invita a prestare attenzione a cinque aspetti che raramente vengono pubblicizzati.
Dov’è la novità?
Il primo è che la strategia non è così nuova come sembra. Nonostante molti prodotti siano stati lanciati negli ultimi anni, l’idea di permettere al gestore flessibilità nella duration (misura della sensibilità ai tassi di interesse) e quindi di ridurla al minimo abbassando la scadenza media dei titoli in portafoglio o di allungarla alzandola, venne utilizzata già negli anni Novanta fino al crash del 1994, quando il mercato obbligazionario fu travolto da un rapido e inatteso aumento dei tassi. Da allora, i gestori hanno preferito assumere un approccio parametrato all’andamento di un determinato indice (Jacobson parla con riferimento al mercato americano). I fondi che hanno successo tra i sottoscrittori oggi non sono quelli di allora -lo stesso si può dire delle banche centrali - tuttavia è bene che gli investitori conoscano il passato per non illudersi troppo sul presente.
Troppo giovani
Il secondo aspetto riguarda lo storico di questi fondi, che è piuttosto breve essendo stati lanciati soprattutto negli ultimi anni, per cui non hanno vissuto la crisi del 2008 e, in molti casi, neppure quella del 2011. Tra i pre-esistenti, inoltre, alcuni avevano in precedenza una differente politica di investimento per cui il track record è poco significativo. Non è possibile sapere, quindi, come si comporterebbero se ci fosse uno shock di mercato. L’analisi qualitativa è di scarso aiuto perché, proprio per le loro caratteristiche, sono pochi i comparti che sono stati studiati dal team di Morningstar. In più, oltre ad essere flessibili nella duration, i fondi più recenti si caratterizzano anche per la possibilità di investire senza vincoli nei diversi settori obbligazionari (corporate, high yield, ecc.), il che rappresenta una fonte ulteriore di rendimento, ma anche di rischio.
Quale benchmark
Il terzo aspetto è proprio la misurazione del rischio, dal momento che spesso nei documenti informativi viene indicato un parametro a ritorno assoluto come un tasso a breve termine (ad esempio il Libor, il tasso interbancario su Londra) oppure il VaR (Value at risk, misura della perdita massima potenziale che un portafoglio può subire con una certa probabilità in un dato orizzonte temporale). In alcuni casi non viene indicato alcun benchmark. Per Jacobson, questi parametri non sono adeguati a misurare il rischio specifico di un fondo flessibile. E’ bene che l’investitore sia consapevole del fatto che è molto raro che si verifichino insieme circostanze quali una performance simile a un titolo obbligazionario con scadenza intermedia, senza sensibilità alle variazioni dei tassi e evitando di incorrere in perdite. In altre parole, è difficile ottenere un rendimento senza prendere anche un rischio.
Cosa hanno in pancia
Il quarto aspetto è la composizione del portafoglio. Nell’analisi dei fondi è importante non fermarsi in superficie ossia alle statistiche generali, ma guardare cosa hanno in pancia questi prodotti. Secondo i dati di Morningstar, circa il 40% dei titoli è sotto il grado di investimento (il dato è riferito all’universo americano, ma per quello europeo è simile). La percentuale è superiore rispetto all’indice Barclays aggregate bond e alla media di categoria dei più tradizionali obbligazionari diversificati. Come spiega Jacobson, quello che sembra mancare (o è poco presente) negli obbligazionari flessibili sono proprio quei titoli, che pur essendo sensibili ai tassi di interesse, potrebbero rappresentare una protezione per il portafoglio, ossia i governativi core, come i Treasury, che generalmente beneficiano della “migrazione verso la qualità” (flight to quality) nelle fasi di ribasso dei mercati.
Le apparenze ingannano
Il quinto aspetto riguarda i costi. Le strategie flessibili non giustificano di per sé commissioni più elevate, anche se spesso questi fondi sono più onerosi di quelli obbligazionari tradizionali. L’analista di Morningstar invita a non farsi ingannare dalle apparenze, che inducono a credere che servano maggiori competenze e risorse per gestire i nuovi prodotti. “E’ possibile che nelle boutique finanziarie questo sia vero, perché sono piccole e con sistemi operativi più semplici”, spiega, “Ma i grandi asset manager hanno già tutto ciò che serve per gestirli compreso il personale”.
Il suggerimento, dunque, è quello di non farsi conquistare da una bella confezione, presentata con efficaci strategie di marketing, ma di spacchettare e guardare i cosiddetti fondamentali di questi fondi, ossia la strategia, la qualità del team di gestione, il portafoglio, il profilo di rischio/rendimento e i costi. Altrimenti ad avere fatto un vero affare quando i tassi saliranno saranno solo gli asset manager.
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