In Italia, la recessione economica non tocca l’industria del risparmio gestito, che nei primi otto mesi dell’anno ha registrato una raccolta netta di 88,4 miliardi di euro, portando il patrimonio complessivo a superare la soglia dei 1.500 miliardi (dati Assogestioni). Protagonisti sono stati i fondi comuni aperti, con flussi netti per 61,6 miliardi, mentre le gestioni di portafoglio si sono fermate a +26,2 miliardi.
Il ritorno degli italiani
Il 2014 è candidato dunque a entrare nella storia del risparmio gestito come uno dei migliori anni e a scriverlo sono stati non solo i fondi esteri, che nel periodo 2011-2012 avevano dato un contributo fondamentale per controbilanciare i forti deflussi da quelli domestici, ma anche e soprattutto quelli italiani (e round-trip ossia domiciliati in Lussemburgo o a Dublino, ma di gruppi italiani), usciti da un lungo periodo buio. Morningstar stima flussi netti (per i soli domiciliati) pari a 19,2 miliardi (al 31 agosto), superiori ai 12,2 miliardi dell’intero 2013. Quest’ultimo anno è stato il primo con il segno più da quando Morningstar fa la rilevazione nel 2006. La svolta è determinata dai cosiddetti “fondi a cedola” o a formula, caratterizzati da una scadenza e dallo stacco periodico di un dividendo. Si tratta di comparti obbligazionari e bilanciati, che hanno riscosso particolare successo in Italia. Ne hanno beneficiato soprattutto gli asset manager che fanno capo a gruppi bancari, come Eurizon Capital (Intesa Sanpaolo) e Aletti Gestielle.
… e delle banche
Il 2014 è destinato ad essere ricordato anche per il contributo delle reti captive (sportelli bancari) al risparmio gestito. Si è invertita, infatti, la tendenza che ha caratterizzato tutto il periodo della crisi, di forti riscatti sui fondi a vantaggio di altri prodotti di investimento ed assicurativi e sono tornate a prevalere le sottoscrizioni sulle fuoriuscite. La ripresa dei fondi domestici è coincisa con il declino delle vendite di obbligazioni bancarie. Continuano, invece, ad avere un ruolo importante le reti di promotori finanziari, grazie alle quali l’industria dei fondi (soprattutto quella estera) è riuscita a contenere i forti deflussi degli anni bui.
Le dinamiche di mercato italiane sono peculiari in Europa, dove la raccolta nei primi otto mesi dell’anno risulta distribuita su categorie più tradizionali come i bilanciati prudenti o gli obbligazionari diversificati in euro e su quelle caratterizzate da maggior flessibilità (in particolare i flexible bond) o da strategie alternative.
I fondi non sentono la crisi
L’industria dei fondi del Belpaese rappresenta una storia a sé non solo a confronto con l’Europa, ma anche rispetto alla situazione congiunturale, caratterizzata da una crescita economica negativa e un tasso di risparmio, pari al 12,8%, che è diminuito sensibilmente dal 2008 e, sebbene sia risalito l’anno scorso, rimane a livelli storicamente bassi e inferiori ad altri Paesi europei come Francia e Germania. Le decisioni delle banche su quali prodotti finanziari promuovere sono una delle possibili spiegazioni alla ripresa del settore, in un contesto nel quale i conti correnti rendono molto poco, gli istituti di credito ricorrono meno al finanziamento attraverso il canale retail e sono spinte dai bassi tassi ad accrescere i ricavi provenienti dalle commissioni. Tuttavia, come si legge in uno studio di Assogestioni, le ragioni vanno ricercate anche nella concentrazione della ricchezza (il 25% degli investitori detiene il 75% del patrimonio dei fondi italiani e il 75% investe meno di 27 mila euro) e nel favorevole andamento dei mercati finanziari.
Il buon momento non deve far perdere di vista le sfide dell’industria, a partire da quella di promuovere gli investimenti di lungo periodo, compresi quelli previdenziali, condizione essenziale perché il risparmio arrivi all’economia reale.
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