I diversi focolai di crisi che si registrano in alcune aree emergenti stanno spingendo alla prudenza gli operatori che investono in queste zone. L’indice Msci dedicato agli emerging nell’ultimo mese (fino al 28 ottobre e calcolato in euro) ha perso il 3,3%, portando a +9,4% la performance da inizio anno. La cautela di queste settimane sembra essere giustificata. In Cina gli investitori hanno a che fare con stime di crescita inferiori alle attese, arrivate insieme a una correzione del mercato immobiliare, che si sono aggiunte alle preoccupazioni di una bolla creditizia. Il dollaro in risalita e la riduzione delle previsioni di crescita globale stanno spingendo verso il basso i prezzi delle materie prime, facendo preoccupare ancora di più gli esportatori di commodity.
A tutto questo vanno aggiunte le tensioni geopolitiche. In Medio oriente il gruppo terroristico Isis pare sul punto di conquistare una provincia chiave confinante con Baghdad. A Hong Kong le proteste pro-democrazia sono in corso da settimane, causando notevoli disordini agli affari in questa città chiave. Pare improbabile che il governo ceda e, piuttosto, sembra sperare che la stanchezza e la pressione dell'opinione pubblica porti i manifestanti a fare marcia indietro. Nonostante l'attenzione di tutto il mondo, non ci aspettiamo che la situazione influenzi i mercati nel lungo periodo. In est Europa i rischi legati alla crisi fra Ucraina e Russia sembrano diminuiti con il cessate il fuoco del mese scorso. La notizia di una ritirata russa dal confine ucraino ha stemperato ulteriormente la situazione.
Occhio ai bond
Nonostante la situazione delicata, gli operatori consigliano di non mettere da parte gli asset delle aree in via di sviluppo. “Vediamo del potenziale in mercati azionari e obbligazionari emergenti selezionati, in cui le valutazioni sono interessanti rispetto ai mercati sviluppati, la crescita economica rimane robusta e l’umore negativo appare eccessivo”, spiega una nota firmata da Erik Knutzen, responsabile investimenti multi-asset class di Neuberger Berman.
Il reddito fisso emerging in particolare, sembra essere uno dei preferiti dagli operatori in questo momento. “In tempi in cui i Paesi del G3 (Usa - Eurozona - Giappone) presentano tassi d'interesse molto bassi, gli investitori che puntano a un rendimento extra dovrebbero iniziare a pensare di allocare parte del proprio portafoglio fixed income sulle obbligazioni corporate dei mercati emergenti, che offrono un profilo rischio/rendimento attraente”, spiega uno studio di Denis Girault, responsabile degli investimenti in bond dei mercati emergenti di UBP. “Prima di tutto, con una capitalizzazione di mercato attorno ai 1.500 miliardi di dollari, pari a circa 4 volte quella del mercato high yield dell’Eurozona, non si tratta più di un’asset class di nicchia. In più, oltre ad alcuni player locali che dovrebbero trarre vantaggio dal potenziale di crescita extra offerto dai Paesi in via di sviluppo rispetto alle economie avanzate, tra le imprese degli emerging ci sono anche alcune delle maggiori multinazionali globali: gli investitori possono quindi accedere a nomi come Hyundai in Corea del Sud, Tata in India o Codelco in Cile”.
Opportunità sembrano esserci anche sul fronte dei governativi. “In termini di deficit fiscali, alcuni mercati emergenti non sono stati così diligenti nel ridurre gli squilibri quanto avrebbe voluto chi ha investito nel loro debito. Tuttavia, in molti hanno compiuto dei validi progressi o sono disposti a farlo”, spiega un report di Brett Diment, responsabile dei mercati emergenti e del debito sovrano di Aberdeen AM. “I dati mostrano che il rischio di default di molti mercati emergenti è contenuto. Tuttavia, ci sarebbe poco da stare allegri se il valore del debito dei paesi in via di sviluppo venisse eroso dal deprezzamento delle valute. Per fortuna, però, le divise dei mercati emergenti sono notevolmente più stabili di prima”.
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