I portafogli degli investitori sono pronti per i grandi eventi che possono condizionare l’andamento dei mercati nel corso del 2015? Ecco di seguito alcuni dei fattori che bisogna tenere in considerazione quest’anno e che vanno letti alla luce degli asset che si hanno in tasca.
La Federal Reserve e i tassi di interesse
Gli Stati Uniti e il resto del mondo sembrano essersi abituati ai tassi di interesse americani vicini allo zero, una delle scelte fatte dagli Usa per cercare di rilanciare l’economia dopo la crisi scatenata dai mutui subprime (a cui poi si sono aggiunte le incertezze per la situazione dei debiti in Europa). Oggi tutti danno per scontato che la Banca centrale americana alzerà il costo del denaro entro la prima metà di quest’anno. Chi la pensa così cita il +5% fatto segnare dal Pil reale Usa nel terzo trimestre dell’anno scorso. Ci sono però alcuni elementi che potrebbero convincere la Fed a prendere altro tempo prima di cambiare politica monetaria. Il livello dell’inflazione, ad esempio, è ancora al di sotto del tetto del 2% indicato dalla Banca centrale come soglia minima. Non va poi dimenticato che l’economia globale, secondo molti economisti, potrebbe rallentare ancora nel 2015 a causa della recessione in alcune parti dell’Europa e di un rallentamento di Cina e India. Tutti elementi che potrebbero avere effetti anche sulla congiuntura Usa. La scommessa su un rialzo dei tassi Usa, insomma, non è così certa come sembra.
L’economia Usa sarà in grado di sostenersi da sola?
Oltre alla congiuntura Usa, anche la corporate America si è data da fare con utili al di sopra delle attese degli analisti. I due elementi hanno lavorato insieme per spingere in alto le quotazioni dell’equity. Il problema, secondo diversi operatori, è che l’andamento macro e quello dei bilanci aziendali sono stati possibili grazie a una situazione di tassi di interesse eccezionalmente bassi. Un dollaro in apprezzamento e le esportazioni dagli Usa che potrebbero subire gli effetti negativi di un rallentamento globale fanno nascere più di un punto interrogativo sulla capacità di tenuta della ripresa Usa.
La Fed sarà in grado di far salire l’inflazione?
L’andamento dei consumi privati e il basso costo del petrolio continuano a tenere l’inflazione Usa intorno all’1,4%, ben al di sotto della soglia del 2% indicata dalla Banca centrale Usa come quella ottimale. L’andamento del barile nelle ultime settimane (ai minimi dal 2009), non depone a favore di un aumento del costo della vita nel breve termine.
Quanto possono scendere i prezzi del petrolio?
L’offerta (forte, grazie anche allo shale oil americano) e la domanda (bassa a causa delle indecisioni dell’economia globale) hanno contribuito al calo dei prezzi del petrolio nel 2014 (-46%). Nel frattempo, il ministro saudita del petrolio Suhail Mohamed Farj al-Mzrouei, ha spiegato che i Paesi dell'Opec proseguiranno sulla via finora tenuta, cioè manterranno la produzione invariata, indipendentemente dagli attuali prezzi del greggio. In una situazione del genere alcuni operatori parlano di un barile attorno ai 20 dollari.
Il dollaro continuerà ad apprezzarsi?
Ci sono stati, fondamentalmente, tre elementi che nel 2014 hanno contribuito all’apprezzamento del dollaro. Primo: l’economia Usa è andata meglio rispetto a quella di altre aree del mondo (specialmente in confronto a Europa e Giappone). Secondo: la Fed ha detto più volte che metterà fine alla politica dei tassi quasi a zero. Terzo: la Bank of Japan ha aumentato in maniera massiccia l’acquisto di asset, mentre la Bce ha detto che inizierà presto la sua operazione di Qe. Tutti elementi che resteranno in piedi nel corso del 2015 e che potrebbero portare a ulteriori apprezzamenti del biglietto verde. Va detto per dovere di cronaca che alcuni membri della Banca centrale Usa (come James Bullard, presidente della Fed di St Louis) hanno suggerito di rimettere in pista la manovra di allentamento monetario. Bisognerà poi tenere conto delle eventuali posizioni politiche riguardo a una divisa troppo energica che rischia di penalizzare le esportazioni.
Il Qe europeo funzionerà?
L’euro ha iniziato l’anno scendendo ai minimi degli ultimi quattro anni e mezzo, dopo che il governatore della Bce, Mario Draghi, ha detto che l’Europa si sta avvicinando alla deflazione. Il numero uno dell’Eurotower ha indicato fra le cause il forte calo del prezzo del petrolio e ha detto di poter spingere la crescita del continente con un programma di allentamento monetario. Un’idea che non piace alla Banca centrale tedesca secondo cui i cali del barile sono, invece, uno stimolo all’economia che rende inutile il Qe. Nel coro dei critici vanno inseriti anche quelli secondo cui gli Usa si sarebbero potuti riprendere anche senza iniezioni di liquidità da parte della Fed.
La Grecia abbandonerà l’Eurozona?
Nonostante le manovre e i piani di austerità imposti dalla Troika alla Grecia, il rapporto debito Pil del paese è passato dal 120% del 2010 al 17% di oggi. Nel frattempo la disoccupazione è rimasta al 25% mentre quella giovanile ha superato il 50%. Tutti questi elementi, secondo diversi osservatori spiegano perché il partito anti austerity Syriza potrebbe vincere le elezioni del 25 gennaio. Nel frattempo la Germania ha detto (per poi correggere il tiro) che l’uscita di Atene dall’euro non sarebbe un dramma. Resta il fatto che il debito ellenico è nelle mani di diversi paesi europei che avrebbero grossi problemi di bilancio nazionale se la Grecia dovesse staccarsi dal resto di Eurolandia.
Il Giappone e l’Abenomics
Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha vinto le elezioni anticipate indette con lo scopo dichiarato di avere il supporto popolare al suo programma di rilancio dell’economia nipponica. È stata una risposta a quanti indicavano lui e l’Abenomics come responsabili del calo dell’1,9% del Pil nel terzo trimestre (peggiore delle attese) e del calo dei consumi seguito all’aumento dell’Iva ad aprile. Nel frattempo la Bank of Japan ha annunciato un ampliamento del suo programma di acquisto di bond nonostante il piano in essere sia già due volte quello fatto dagli Usa. Diversi economisti fanno notare che i problemi del Giappone sono strutturali (popolazione anziana, scarsa partecipazione femminile al lavoro, settori chiusi alla concorrenza) e che non possono essere risolti con stimoli monetari o fiscali.
Il fattore Cina…
La risposta cinese alla crisi globale è stato un massiccio programma di stimoli economici iniziato nel 2009 che prevedeva, fra le altre cose, la creazione di nuovo credito per spingere i consumi interni. Questa operazione ha fatto nascere un circuito di finanziamento alternativo a quello bancario, poco trasparente e dedicato soprattutto agli investimenti immobiliari soprannominato shadow banking. Oggi questo segmento, secondo alcune stime, vale circa 2mila miliardi di dollari. Con il crollo dei prezzi del mattone c’è il rischio di un default che possa mettere in crisi l’intero sistema finanziario cinese. La Banca popolare cinese, tuttavia, ha a diposizione più di 4mila miliardi di dollari di riserve con cui aiutare gli istituti di una certa dimensione che dovessero trovarsi in difficoltà. Pechino, peraltro, è famosa per affrontare con metodi energici qualsiasi crisi che possa mettere a rischio la crescita del paese.
…e quello Russia
L’economia russa nei mesi scorsi ha dovuto fare i conti con due fattori: l’effetto delle sanzioni internazionali per il suo ruolo nella crisi in Ucraina e il crollo dei prezzi energetici. Le stime, sia quelle governative sia quelle delle banche d’affari, parlano di un paese in recessione. La Russia, tuttavia, ha riserve monetarie per 370 miliardi di dollari. Va aggiunto che le sanzioni non potranno andare avanti all’infinito, visti i legami commerciali di Mosca con alcuni importanti paesi europei fra cui, su tutti, la Germania.
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