Mentre l’America festeggia il rafforzamento della sua economia, c’è chi suda freddo. In particolare, a preoccuparsi sono gli azionisti della società Usa abituati a generosi dividendi che, dicono gli analisti, con il rafforzamento della moneta yankee vedranno le loro cedole impoverirsi. La fotografia scattata stamattina sul mercato del foreign exchange mostra un biglietto verde sempre in forma nei confronti delle principali divise. L’euro è salito a 1,1346 dollari da 1,1285 della precedente seduta. La valuta americana ha guadagnato contro quella giapponese: il cambio è passato a 117,68 yen da 117,41 yen di venerdì. Il franco svizzero è sceso sui minimi di due settimane contro dollaro (ed euro). Restando al cambio fra moneta unica e biglietto verde, a dicembre Goldman Sachs stimava entro fine 2015 un livello di cambio tra le due principali divise del mondo a quota 1,15. Morgan Stanley parlava di 1,12.
Un circolo virtuoso o vizioso?
Lo stato di salute della moneta americana è diretta conseguenza del miglioramento del Pil americano (che si aggira intorno al 2%) e dell’indebolimento di altre congiunture. “In una situazione in cui i paesi emergenti stanno rallentando e l’Europa continua a rimanere sull’orlo di una recessione con accenni di deflazione, non sorprende che gli investitori cerchino di spostare i loro soldi dove vedono situazioni congiunturali migliori. Il posto migliore, in questo momento, sono gli Stati Uniti”, spiega Josh Peters, analista di Morningstar. Un discorso analogo si può fare per le obbligazioni. Con un Bund decennale che offre rendimenti negativi, il 2% del Tbond pari scadenza diventa molto interessante.
Tutto questo attrae capitali verso gli Usa, spingendo gli investitori esteri a cambiare la propria valuta in dollari per investire nell’economia americana e dando nuove spinte al biglietto verde. “Il rovescio della medaglia di questa situazione non piace a chi ha investito nelle grandi società americane che realizzano buona parte dei ricavi all’estero e che vedranno i loro guadagni ridursi una volta che saranno trasformati in valuta Usa. Per cercare di tenere i bilanci in ordine molte di queste aziende saranno costrette a limare i dividendi”. L’esempio più eclatante, in questo senso è Philip Morris, che realizza praticamente tutti i suoi guadagni fuori dai confini Usa.
Le scelte operative
Dal punto di vista operativo, la questione è complicata. Di primo acchito verrebbe da dire che la soluzione migliore sia quella di ruotare i portafogli che puntano sui dividendi, acquistando azioni di società che lavorano principalmente in Usa. “Questa soluzione si scontra con la realtà delle valutazioni che, in molti casi, sono troppo alte”, spiega Peters. “Alcune opportunità si trovano nel segmento delle utility che stanno incontrando delle difficoltà e, quindi, offrono la possibilità di fare acquisti nei momenti di debolezza dei titoli. Si tratta, però, di un segmento che soffrirà quando si alzeranno i tassi di interesse. In generale, quindi, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, sarebbe meglio mettere da parte le considerazioni legate alle cedole e ragionare sulle valutazioni, andando a cercare quei prezzi che potrebbero dare soddisfazione nel giro di quattro o cinque anni”.
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