L’America rischia una nuova frenata dell’economia? E’ una tesi difficile da sostenere alla luce dell’ultima fotografia macro scattata dalla congiuntura Usa, ma che potrebbe avere qualche pezza d’appoggio, costringendo gli investitori a rivedere il posizionamento dei portafogli.
I dati dicono che il Pil del quarto trimestre nella prima economia del mondo è cresciuto del 2,2% annuo contro attese per un +2%. La seconda lettura è inferiore alla prima (+2,6%), ma la spesa da parte dei consumatori (che corrisponde al 70% della domanda nell'economia americana) è rimasta solida: il +4,2% registrato è il migliore incremento da inizio 2006. Il rapporto sul Pil dice anche che i consumatori stanno spendendo a un buon ritmo, che le aziende hanno aumentato (seppur in modo contenuto) le spese in attrezzature invece di tagliare gli investimenti, che le esportazioni hanno leggermente accelerato e che le scorte nei magazzini delle aziende non sono salite con la velocità calcolata in precedenza. Questo quadro, tra l’altro è incorniciato da una situazione di occupazione crescente.
Occhio agli stipendi
Tutto bene quindi? Non proprio, rispondono alcuni operatori, secondo cui queste analisi non tengono conto di un elemento importante: il passo lento con cui stanno crescendo gli stipendi. E se la situazione dovesse perdurare, aggiungono, le famiglie potrebbero decidere di chiudere di nuovo i borsellini, rimettendo in discussione le prospettive di ripresa del paese.
Va detto che la paga oraria negli Stati uniti è cresciuta dello 0,5% nell’ultimo trimestre dell’anno scorso (il balzo maggiore degli ultimi sei anni). Bisogna anche aggiungere che aziende dal braccino corto, come il colosso della grande distribuzione Wal-Mart, hanno deciso di portare a 10 dollari l’ora il salario dei lavoratori rispetto al minimo di legge di 7,25 dollari. Una pioggia di soldi se si considera che, secondo un rapporto curato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dall’International Labor Organization e dalla World Bank, nei paesi sviluppati, dalla fine della crisi in Usa, la crescita degli stipendi è stata dello 0% secco. Negli stati del G20, invece, è stato registrato un miglioramento compreso fra l'1% e il 2%. Ma il merito va, soprattutto, agli aumenti salariali in Cina. Secondo uno studio dell’ufficio Usa per le statistiche sul lavoro, la paga media dei lavoratori americani a gennaio di quest’anno è stata di 20,80 dollari: aggiustato per l’inflazione, è lo stesso livello dell’inizio del 1973.
“L’ampia disponibilità di persone che aspettano di rientrare nel mondo del lavoro (comprese quelle straniere), lo sviluppo tecnologico che richiede sempre meno personale e la scarsa protezione data ai lavoratori da parte delle leggi consentono alle imprese di non aprire più di tanto i cordoni della borsa”, spiega uno studio della Wharton Business School. Un concetto espresso anche da un report del Center for Economic and Policy Reasearch, secondo cui “bisogna recuperare dai 4 ai 5 milioni di posti di lavoro prima di arrivare ai livelli precedenti alla recessione. Da allora il numero degli impiegati part time è cresciuto del 50%. La gente non si sente ancora sicura e non è nella posizione di chiedere aumenti di stipendio”. In effetti il tasso disoccupazione al 5,7% è ancora lontano dal 4% registrato alla fine degli anni ’90 (l’unico periodo di grande rialzo dei salari a tutti i livelli di reddito dagli anni ’70).
Meglio risparmiare
La questione, a questo punto, è capire se veramente gli americani sono tornati (e sono in grado) di spendere come quando l’economia correva a grandi falcate. “I dati sui consumi ci dicono che, rispetto al quarto trimestre dell’anno precedente, alla fine del 2014 la situazione è migliorata. I confronti mese su mese, invece, indicano che gli americani si stanno trasformando in un popolo che preferisce risparmiare”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “Il problema con i dati sulle vendite al dettaglio è che possono dire quello che vogliamo a seconda di come vengono letti. L’elemento interessante, semmai, è che l’aumento dei consumi non è stato coerente con il calo dei prezzi del petrolio. Le famiglie, in sostanza, non vogliono spendere i soldi che gli restano in tasca quando fanno il pieno alla macchina. Se questo atteggiamento continuasse, all’economia potrebbe mancare la spinta necessaria per mettersi definitivamente in carreggiata”.
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