I mercati di frontiera fanno un giro a vuoto. Ma, dicono gli operatori, dovrebbe trattarsi di una debolezza passeggera. L’indice Msci dedicato ai paesi che non sono ancora emerging nell’ultimo mese (fino al 26 maggio e calcolato in euro) ha perso il 4,8%, portando a +6,6% la performance da inizio anno. “Nelle ultime settimane sono tornati a galla alcuni elementi che caratterizzano questi paesi”, spiega Patricia Oey, analista di Morningstar. “Instabilità politica, tensioni sociali, casi di corruzione e pericoli legati al terrorismo. Sono elementi simili a quelli che si trovano sui mercati emergenti. Ma nei momenti di stress dei mercati, i segmenti equity meno liquidi possono soffrire più di altri”.
Nonostante questi elementi di rischio, gli operatori non intendono cestinare la questione frontier. “Continuano a restare nei radar degli investitori perché, ad esempio, nel 2013 e nel 2014 hanno fatto meglio dei paesi emergenti”, continua Oey. “Questo anche grazie alle prospettive di crescita migliori rispetto a grandi economie in via di sviluppo come Cina, Brasile e Russia che hanno iniziato a segnare il passo”.
L’Arabia spalanca le porte
Uno dei paesi che viene tenuto sotto osservazione in queste settimane è l’Arabia Saudita che, a giugno, aprirà completamente le porte del suo mercato azionario agli stranieri. Le autorità del paese hanno preso questa decisione per creare posti di lavoro, diversificare l'economia al di là del petrolio e imporre alle imprese locali una maggiore disciplina di mercato. Ma il governo ha ritardato l'attuazione della riforma, in preparazione da anni, perché preoccupato dalla prospettiva di una maggiore volatilità del mercato, nonché a causa della sensibilità politica del tema. Attualmente, gli stranieri possono comprare azioni saudite tramite swap che coinvolgono banche internazionali e attraverso un piccolo numero di Etf. Si stima che gli stranieri controllino circa il 5% del mercato saudita.
“Il Tadawul Index, il benchmark dell'Arabia Saudita, è ora stimato a 14 volte gli utili per il prossimo anno. Un livello che è ancora inferiore a quello della scorsa estate. Nonostante il recente calo del prezzo del petrolio, Riyadh non ha fatto alcuna significativa revisione al ribasso sulle sue spese di bilancio grazie alle grandi riserve in valuta estera che sono quasi pari al Pil (circa 780 miliardi di dollari)”, spiega un report firmato da Emre Akcakmak, membro del team di gestione di East Capital. “Il paese ha un debito pubblico pari quasi a zero e per questo, nonostante i bassi prezzi del petrolio, può emettere nuovo debito senza mettere pressione sull'economia generale. Pensiamo che le società maggiormente orientate ai consumi registreranno una crescita superiore al 10-15%, dato che il settore è ancora poco sviluppato e l’ascesa della classe media è uno dei principali motori dell'economia”.
Occorre però guardare con attenzione anche alla situazione geopolitica della regione, come gli scontri in Yemen. “E’ stato incoraggiante vedere la veloce formazione della coalizione guidata dall'Arabia Saudita rispondere alla situazione”, dice Akcakmak. “L’esito dei colloqui sul nucleare dell'Iran, invece, potrebbe riscaldare la lotta di potere nella regione, ma pensiamo che questa non si svilupperà in qualcosa di peggio che potrebbe far deragliare l'economia saudita”.
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