Dopo quattro mesi di trattative la Grecia e i suoi creditori (la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale) non hanno trovato un accordo. Il programma di aiuti in corso è scaduto il 30 giugno. Ci sarebbe bisogno di un nuovo piano ma, nel frattempo, Atene ha mancato il pagamento di 1,5 miliardi all’Fmi. Un default che, in teoria, potrebbe portare il paese fuori dall’euro. Il prossimo passo sarà un referendum indetto dal governo ellenico per chiedere ai cittadini se sia il caso di accettare le condizioni imposte dai creditori o rifiutarle. Nel frattempo, almeno teoricamente, si potrebbe arrivare a un accordo. In realtà è difficile. Ed è un peccato perché le posizioni delle due parti sono vicine. A separarle sono alcune differenze sostanziali. Il 30 giugno, il premier greco, Alexis Tsipras, ha fatto concessioni per quanto riguarda l’aumento dell’Iva, le tasse delle aziende, le spese per la difesa, le pensioni e le privatizzazioni delle società energetiche nazionali. La proposta, tuttavia, era soggetta a “emendamenti, aggiunte e chiarimenti”. Tre incognite che, probabilmente, avrebbero toccato gli stessi punti sensibili che avevano impedito un accordo nelle settimane precedenti come l’età pensionabile e un’Iva più bassa per le isole. La Germania, temendo probabilmente nuove richieste da parte della Grecia se si fosse arrivati al tavolo delle negoziazioni, si è affrettata a respingere il progetto di Atene.
Prossimo passo: sì o no?
L’esito del referendum è incerto. Prima di tutto perché i greci avranno a che fare con una domanda posata in maniera poco chiara (con riferimenti a date e nomi di programmi senza entrare nel dettaglio delle proposte, Ndt). Anche leggendo le 17 pagine che formano le richieste di Atene e quelle dei creditori, i votanti non saprebbero se votare sì o no. Il linguaggio in molti passaggi è troppo tecnico ed è difficile avere il quadro completo di come, in un caso o nell’altro, cambierebbe la vita delle persone. Con un po’ più di tempo a disposizione i politici avrebbero potuto spiegare meglio la questione. Ma, nella situazione attuale, votare sì è un atto di fede.
Il no sembra più semplice da interpretare. Il presidente dell’Eurogruppo ha spiegato il 29 giugno che i greci stanno scegliendo se stare o meno nell’Eurozona. In teoria, se i greci voteranno no, i creditori non presenteranno una nuova offerta di aiuto. Peraltro il paese non potrà onorare il pagamento della rata che deve alla Bce entro il 20 luglio senza aiuti finanziari. L’Eurotower, da parte sua, non può giustificare un soccorso a un paese insolvente. Se la Banca centrale affossasse il sistema finanziario greco, il paese sarebbe di fatto fuori dall’area euro.
L’eventualità di un no, quindi, dipinge uno scenario doloroso per Atene. Ma non credo che molti greci capiscano il significato di una Grexit. Io non lo comprendo. In teoria i risparmiatori perderebbero molti dei loro soldi che sarebbero valutati in dracme. Gli investimenti stranieri sparirebbero di colpo. Disoccupazione e povertà arriverebbero a livelli più alti di quelli visti ora. L’iperinflazione diventerebbe una concreta possibilità.
Alcuni studi, tuttavia, hanno dimostrato che lasciare l’euro sarebbe un vantaggio nel lungo termine. Una svalutazione permetterebbe al paese di essere più competitivo. A tempo debito gli investimenti stranieri tornerebbero e la Grecia avrebbe di nuovo acceso al mercato dei capitali.
Insomma il risultato del referendum è nelle mani di un elettorato poco informato. Tsipras e il suo partito hanno chiesto di votare no dicendo che i termini e le condizioni imposte dai creditori sono troppo duri. Questo peraltro crea confusione, visto che le offerte del governo sono simili a quelle di chi ha prestato i soldi. Se dovessero vincere i sì, il partito di governo lascerebbe e verrebbero indette nuove elezioni. Così ha detto l’esecutivo.
Gli scenari
1) I sondaggi dicono il contrario, ma io sono convinto che i greci diranno sì alle richieste dei creditori. In quel caso la Bce darebbe immediatamente gli aiuti alle banche greche. Il governo di Tsipras sarebbe sostituito con nuove elezioni o con un esecutivo di tecnici.
2) I greci votano sì, ma il governo resta in carica. Il partito di maggioranza sarebbe nella scomoda posizione di accettare le condizioni di aiuto che aveva rifiutato. Il primo ministro e quello delle finanze, che fino ad oggi hanno condotto le trattative, sarebbero rimpiazzati.
3) I greci votano no, ma le parti decidono di tornare al tavolo delle trattative per trovare un accordo. A questo punto la nuova scadenza sarebbe il 20 luglio, data entro la quale dovrebbero essere versati 3,5 miliardi alla Bce. La Grecia non ce la fa e l’Eurotower dichiara il paese insolvente cacciandolo dall’Eurosistema.
4) La Grecia vota no e la Bce chiude immediatamente i rubinetti del credito lasciando il paese al suo destino (scenario meno probabile).
Contagio, volatilità e Banche centrali
La preoccupazione generale è quella di una situazione che possa contagiare altri mercati periferici. Gli investitori potrebbero liberarsi delle obbligazioni di Spagna, Portogallo e Italia, facendo aumentare i costi di finanziamento e impedendo a questi paesi l’acceso ai mercati dei capitali. Uno scenario simile a quello visto nel 2012. Ma da allora le cose in Europa sono un po’ cambiate.
Le istituzioni europee possono evitare la crisi in tre modi.
1) La Bce sta già acquistando asset per 60 miliardi al mese attraverso il programma di allentamento monetario. Potrebbe aumentare questa cifra calmando i mercati.
2) Una disposizione della Corte europea di giustizia permette alla Bce di acquistare debito statale quando un paese non riesce ad accedere ad altri finanziamenti, a patto che lo stato in questione si adatti a seguire un programma di assistenza finanziaria.
3) Il Meccanismo europeo di stabilità potrebbe lanciare un salvagente alle banche e al paese.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il trasferimento della crisi ellenica avverrebbe attraverso i mercati finanziari. Le condizioni sul mercato diventerebbero più difficili, con un rafforzamento del dollaro, un aumento degli spread e un abbassamento dei prezzi delle azioni. Il Fomc (il braccio operativo della Federal Reserve) non si riunirà prima del 29 luglio ed è improbabile che anticipi il meeting. In quell’occasione la Banca centrale Usa non potrebbe fare altro che prendere atto della situazione. L’ipotesi di un rialzo dei tassi, già esclusa dai mercati per quel giorno, si allontanerebbe ancora di più (la mia previsione è per settembre o, al più tardi, dicembre). Non prevedo azioni della Fed collegate alla situazione greca.
Per vedere l’intervista a Francisco Torralba, clicca qui
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