La Cina affonda le Borse, non l’economia mondiale

Il panico può innescare ancora ondate di vendite, ma è poco probabile una crisi come quella provocata dai mutui subprime.

Robert Johnson, CFA 26/08/2015 | 14:09
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Sono giorni terribili per i mercati. Nell’ultima settimana, tutti hanno accusato forti perdite, comprese le materie prime. La Cina e gli emergenti sono stati i più colpiti, ma non sono stati risparmiati neppure i paesi sviluppati.

I principali indici emerging hanno perso circa l’8% in sette giorni, Europa e Stati Uniti intorno al 6% e le commodity, già penalizzate nelle settimane precedenti, il 3%. I titoli governativi americani, considerati un porto sicuro, si sono apprezzati (e di conseguenza i rendimenti sono scesi).

Anche se le vendite sono state causate da diversi fattori, quali le valutazioni elevate e la presenza di pochi operatori sui mercati, la Cina ha rappresentato il problema principale. Il peggio è avvenuto venerdì 21 agosto quando il rapporto sui direttori degli acquisti (considerato uno degli indicatori dello stato di salute di un paese) è stato peggiore delle attese. Il dato ha indotto gli investitori a pensare che il quadro macro fosse più debole del previsto (i ribassi sulle Borse sono proseguiti lunedì 24, Ndt).

Non è il 2008
La principale preoccupazione è che alcuni operatori del mercato, troppo indebitati e con una errata percezione dell’andamento dell’economia cinese, possano innescare delle forti vendite. Tuttavia, non pensiamo ci possa essere un contagio come è accaduto durante la crisi dei subprime (mutui di bassa qualità, Ndt) negli Stati Uniti. Certo, il ricordo del 2008-2009 è ancora vivo e la paura potrebbe prendere il sopravvento sulle reali condizioni macro, causando il panico a livello mondiale.

Le notizie economiche sono state buone negli Stati Uniti e in Europa nell’ultima settimana, suggerendo che la Cina non è tutto. In particolare, sono stati positivi i dati sulle case negli Stati Uniti. Un altro tema caldo è l’inflazione. Nelle ultime minutes della Federal Reserve, traspare una maggiore volontà ad alzare i tassi di interesse, ma ciò è passato in secondo piano rispetto alla situazione cinese.

Nonostante le stime del Governo di Pechino continuino ad  indicare una crescita del 7% del Pil (Prodotto interno lordo) nel 2015, Morningstar prevede un incremento più contenuto, intorno al 6% quest’anno e in un intervallo tra il 3 e il 5% nei prossimi 5-10 anni.

Gli Usa possono stare tranquilli
L’impatto del rallentamento cinese sugli Stati Uniti, comunque, appare limitato. Le esportazioni di beni e servizi verso il paese asiatico ammontano allo 0,9% del Pil (dati del 2014). Gran parte è legata a beni di prima necessità come cibo e carburante e alle forniture di aerei. Di conseguenza, un rallentamento delle vendite in Cina, difficilmente sposterà l’ago della bilancia economica americana.

Probabilmente, saranno più colpite le multinazionali con forti relazioni con Pechino, ma le cui spedizioni commerciali partono da fuori gli Usa. Queste aziende hanno avuto un andamento positivo degli utili, quando è finita la recessione, anche se l’economia era debole. Ora potrebbero risentire del rallentamento della crescita globale, nonostante la congiuntura statunitense sia in ripresa. Anche il settore energetico e l’industria mineraria stanno soffrendo, ma non da danneggiare l’espansione del Pil.

Inoltre, il rallentamento cinese aiuta a ridurre il prezzo delle materie prime, rendendo meno costosa la costruzione di nuove case, stimolando gli acquisti di abitazioni e, più, in generale i consumi.

Traduzione e sintesi a cura di Sara Silano

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Robert Johnson, CFA  Robert Johnson, CFA, is director of economic analysis with Morningstar.

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