L’iperattività delle Banche centrali rischia di far venire i crampi per la fame agli investitori. Le ultime mosse annunciate (o attese) dai maggiori istituti di politica monetaria, infatti, si innestano in un quadro in cui si nota già un aumento dell’appetito per il rischio. E non importa se le politiche monetarie, in alcuni casi, si muovono in maniera cosiddetta diverging.
Un esempio, in questo senso è la Federal Reserve. Secondo l’ultimo comunicato pubblicato dalla Banca centrale Usa, sarà “appropriato” alzare i tassi alla prossima riunione (prevista per i prossimi 15 e 16 dicembre). L'istituto centrale guidato da Janet Yellen non era mai stato così chiaro nell'indicare che una stretta è vicina, mettendo fine a uno stile di comunicazione che da diversi economisti era stato bollato come “un circo”. La stretta monetaria sembra promettere bene per le azioni. “I flussi di cassa delle aziende americane tendono a essere migliori nei periodi in cui il costo del denaro aumenta perché in quei momenti l’economia è più forte”, spiega Karen Wallace, analista di Morningstar. Secondo i suoi studi, nel periodo marzo 2004-giugno 2006 (quando la Fed ha alzato i tassi del 4% attraverso una serie di incrementi del 2,5%) tutti i settori azionari in cui Morningstar divide il mercato equity sono cresciuti: dal +1,6% del farmaceutico al +36,5% dell’energia. “Non è detto che dinamiche simili si vedranno anche questa volta”, dice Wallace. “Se i tassi saliranno perché l’economia nel suo complesso sta crescendo allora i titoli growth probabilmente reagiranno più velocemente di quelli value. Almeno in teoria. In pratica bisognerà tenere conto anche di altri elementi come lo stato di salute delle congiuntura e le valutazioni sia a livello settoriale che di singole società”.
Dove va la Bce
In una direzione opposta ai colleghi americani si sta muovendo la Bce che, riunita la settimana scorsa a Malta, ha lasciato invariati i tassi di interesse e le misure straordinarie di sostegno a congiuntura e inflazione. Di più. L’Eurotower ha sorpreso i mercati, preannunciando “una valutazione” del livello di accomodamento delle sue politiche per l'incontro di dicembre, una volta lette le stime aggiornate su crescita e inflazione. Le dichiarazioni del presidente, Mario Draghi, in conferenza stampa, sono state molto più dovish (cioè dirette a un maggior accomodamento) del previsto. L'effetto sui mercati è stato un immediato assestamento dell'euro e una discesa dei tassi, accompagnati da un rialzo delle classi di asset più rischiose. Le considerazioni che hanno prevalso all’interno della Bce sono state quelle esterne, prime fra tutte le possibili conseguenze del rallentamento dei mercati emergenti, in particolare di Cina e Brasile, sull'Eurozona. La domanda interna, invece, viene definita “resistente”. Ma il piatto preparato da Draghi, per gli investitori azionari rischia di rimanere sullo stomaco. Secondo gli analisti, dagli ultimi dati macro della regione emergono, infatti, un certo rallentamento nella congiuntura europea e rischi di inflazione troppo bassa. “Le attuali stime sul percorso futuro dell’inflazione sono causa di timori, poiché prevedono che l’indicatore core raggiungerà solo l’1,6% nel 2017”, spiega una nota di David Basola, responsabile per l’Italia, Mirabaud AM. “Per quanto riguarda l’ulteriore Quantitative easing (QE), lo scenario più probabile, secondo noi, è quello di un aumento di dieci miliardi di euro degli acquisti mensili di asset, di un prolungamento del programma di tre-sei mesi e di un taglio di 10 punti base del tasso sui depositi”.
Cosa succede in Asia
Gli investitori, intanto, si preparano per mettersi a tavola anche con il Giappone. I dati macroeconomici che arrivano dal Sol levante, infatti, continuano a deludere gli operatori, i quali ritengono che siano sempre più necessari ulteriori stimoli da parte della Bank of Japan (l’appuntamento è per il 30 ottobre). Nello specifico le vendite al dettaglio sono calate a sorpresa dello 0,2% su base annuale a settembre, segnalando una certa debolezza sul fronte della spesa per consumo. Il dato ha deluso il consenso degli economisti che si aspettavano invece un incremento dello 0,5%. Inoltre la fiducia delle piccole imprese giapponesi è calata a 48,7 punti a ottobre dai 49 di settembre. Tutto questo in un quadro di complessiva debolezza dell’Arcipelago che, secondo diversi analisti, da solo basterebbe a spingere la BoJ ad agire.
La Banca centrale della Cina, intanto, non sta ferma. Nei giorni scorsi ha tagliato a sorpresa il tasso d’interesse su prestiti e depositi di 25 punti base (0,25%). Pechino ha anche abbassato il coefficiente di riserva obbligatoria di 50 punti base. Il rendimento sui prestiti a un anno è sceso dal 4,6% al 4,35%, mentre il tasso d'interesse corrisposto sui depositi si riduce dall'1,75% all'1,5%. La Banca centrale ha infine rimosso il tetto ai tassi praticati sui depositi. Per la Cina si tratta del sesto taglio dal novembre 2014. Tutti segnali che, se da una parte indicano il momento difficile che sta attraversando la prima economia emergente del mondo, dall’altra mostrano che le autorità di Pechino non hanno intenzione di farsi sfuggire la situazione di mano mentre cercano di guidare il paese da una crescita basata sulle esportazioni a una appoggiata sui consumi interni.
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