Per spiegare cosa è successo nel 2015 nel mondo degli investimenti basta guardare al nord Europa. La lente giusta è quella delle categorie Morningstar relative alla regione Emea che, per l’anno appena chiuso, mostrano in cima alla classifica delle performance l’azionario danese (+32,3%) e quello svedese delle small cap (+31,2%). Ma nelle prime 20 posizioni sono molte le caselle occupate dagli strumenti dedicati all’equity del nord Europa (esempi: Nordic Equity +20,5%, Finland Equity +18,2%). “I diversi mercati della regione sono piccoli e concentrati”, spiega Nikolaj Holdt Mikkelsen, analista del team Market and Portfolios di Morningstar. “Alcune delle società più grandi dei rispettivi listini hanno avuto un anno straordinario e hanno spinto le piazze finanziarie dell’area”. Il futuro si presenta un po’ più incerto, soprattutto alla luce dei chiari di luna che si sono visti nei primi giorni dell’anno, con la partenza turbolenta dei mercati e i problemi di congiuntura registrati in alcune zone del mondo.
Tutti elementi che pongono una grande sfida alle piccole economie aperte del nord Europa. “I paesi nordici seguono diversi percorsi di sviluppo ma, in generale, ci aspettiamo che l’area cresca del 2% nel 2015, accelerando al 2,2% nel 2016”, spiega una nota di Helge J. Pedersen, capo economista globale di Nordea. In Svezia la crisi dei rifugiati ha innescato una serie di misure fiscali che stanno portando a un aumento della spesa pubblica. Le esportazioni hanno cominciato a crescere come effetto della ripresa dell’Eurozona e ci si attende un’accelerazione del Pil svedese intorno al 3,5% nel 2015 e nel 2016. La Danimarca sta recuperando su larga scala, grazie principalmente alla spesa dei consumatori. L’economia finlandese potrebbe vedere un’espansione molto lenta, sintomo che il paese ha bisogno di riforme. I problemi legati alle esportazioni, la mancanza di fiducia e una prospettiva di crescita debole significano difficoltà per la domanda interna. La Norvegia è stata colpita duramente dal rallentamento dell’industria dei servizi petroliferi, che non è ancora terminato.
A quando la riscossa del barile?
La debolezza dell’oil è stata fotografata bene dell’andamento della categoria Morningstar Commodities – Energy che, nel 2015, ha perso il 32,4%, finendo in ultima posizione della classifica generale appena sopra l’equity del Brasile (non a caso, un paese la cui salute dipende molto dall’andamento del barile). “Il settore petrolifero soffre di uno sbilanciamento fra la domanda e l’offerta a causa di una crescita economica ancora troppo debole in alcuni paesi sviluppati ed emergenti”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. Nel frattempo gli Usa continuano a pompare sul mercato petrolio di scisto, mentre l’Opec non sembra intenzionata a tagliare la produzione. E in futuro potrebbero cominciare a girare nuovi barili estratti in Iran. Ce n’è abbastanza per vedere crolli delle quotazioni di oro nero. “Noi, tuttavia, continuiamo a essere convinti che i prezzi saliranno”, dice Johnson. “L’attuale livello non è alto abbastanza per sostenere gli investimenti che saranno necessari per continuare a far fluire queste quantità di petrolio. A un certo punto il rialzo sarà automatico. Ma è qualcosa che vedremo nel lungo periodo”.
Gli emerging non vanno nel cassetto
L’altro elemento con cui dovranno fare i conti i paesi nordici (e non solo) è la situazione della Cina. Le categorie Morningstar dedicate alla prima economia emergente del mondo si sono comportate abbastanza bene (+21% la China equity A Shares), considerando che si tratta di un paese in continua frenata e dove le autorità (sia di Borsa che politiche) sembrano non sapere che pesci pigliare per ridare un po’ di slancio alla congiuntura e ai listini. In generale pare che gli investitori scommettano su più efficaci misure da parte dell’esecutivo e della Banca popolare cinese. “Il fatto è che il paese sta sì rallentando, ma non precipitosamente”, dice Johnson. “I consumi domestici saranno ancora il driver dell’economia del paese e del mondo. Ma il passaggio a un sistema di questo tipo procede su una strada accidentata”.
Scambiare la frenata della Cina e degli altri emergenti per un problema strutturale, però potrebbe essere pericoloso. Certo la categoria Morningstar dei mercati emergenti globali nel 2015 non ha brillato (-4,62%). Ma, se sono veri i numeri di Moody’s, non si può prescindere da un complesso di paesi che, oggi, nonostante la fase di crisi, contribuisce al 53% della crescita economica mondiale (era stato, mediamente, il 38% dal 1985 al 2000). Gli emerging, inoltre, possono contare su una buona risorsa: dal 1979 al 1999 sono cresciuti al tasso del 3,6% annualizzato che poi è arrivato a sfiorare il 6%. I paesi sviluppati, negli stessi periodi, sono passati dal 2,9% all’1,8%. Nel frattempo fra gli emergenti si affaccia l’Indonesia. La categoria di fondi dedicata al paese asiatico nell’ultimo mese dell’anno scorso ha guadagnato quasi il 5% e già nel corso dell’anno si era segnalata per performance di periodo interessanti. Gli investitori stanno tenendo d’occhio le riforme economiche che vengono portate avanti per attrarre investitori esteri e rilanciare la crescita.
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