Richard Thaler, presidente dell’American Economic Association, è d'accordo con il premio Nobel Eugene Fama sul fatto che l’opzione migliore per gli investitori privati è quella di possedere fondi indicizzati o Etf. Warren Buffett ha dato più volte consigli molto simili, esattamente come David Swensen, responsabile degli investimenti di Yale.
Tuttavia, malgrado questi consigli in favore della replica passiva, questi quattro importanti esperti sono tutti dediti alla gestione attiva: Thaler è uno dei fondatori della società di gestione Fuller & Thaler Asset Management, che gestisce fondi attivi per clienti istituzionali. Buffet, si sa, è responsabile del portafoglio azionario di Berkshire Hathaway, mentre Swensen gestisce (attivamente) il fondo d’investimento dell’università di Yale. Il quarto, Fama, non è ufficialmente un gestore attivo, ma viene spesso indicato come “il padre delle ipotesi di mercato efficiente” ed è attualmente consulente per il Dimensional Fund Advisors (DFA), il quale, pur creando dei benchmark interni, si presenta come “attivo”.
Poi c’è Roger Ibbotson, docente di finanza a Yale e fondatore dell’omonima società (acquistata poi da Morningstar) che ha diffuso l'utilizzo dei dati finanziari a lungo termine, il quale attualmente gestisce un hedge fund. O, ancora, il premio Nobel Myron Scholes, che ha co-fondato l’hedge fund Long-Term Capital Management.
Insomma, mentre la letteratura accademica e i media incoraggiano l’utilizzo della replica passiva, gli stessi influenti esperti che spesso vengono accostati al boom degli Exchange traded funds (Etf) gestiscono portafogli attivi. Come mai?
Doppia tentazione
Innanzitutto, c’è il proprio ego. Anche se nessuno lo ammetterà mai, ognuno di loro pensa di essere più intelligente di tutti gli altri (compreso il sottoscritto e voi). La loro fiducia in se stessi è comprensibile. Sono persone molto brillanti, che hanno avuto un enorme successo professionale. E, per molti di loro, la loro fede nelle proprie capacità è stata confermata dai risultati.
In questi casi, il pericolo sta nella overconfidence, la troppa fiducia in se stessi (clicca qui per approfondire). Negli anni ‘70, quando i ricercatori comportamentali iniziarono a studiare seriamente il modo in cui le persone prendono decisioni d’investimento, furono sorpresi di apprendere che gli esperti altamente qualificati commettevano spesso errori più gravi dei novizi. Certo, gli esperti erano molto più preparati, nessun dubbio su questo, ma la troppa sicurezza nei propri mezzi li spingeva sovente a commettere errori nelle loro risposte.
La seconda ragione è puramente economica. Nei casi di Buffett e Swensen, la motivazione è ovvia: sono pagati per allocare il capitale. Se possono farlo meglio attraverso una gestione attiva piuttosto che attraverso l'indicizzazione – e finora è stato così – lo fanno in questo modo. Per molti altri, la gestione degli investimenti è un secondo lavoro. Ma potenzialmente, un secondo lavoro altamente remunerativo. Anche se i professori di finanza sono in cima alla scala accademica per quanto riguarda gli stipendi, e spesso possono arrotondare attraverso la consulenza, la verità è che la retribuzione potenziale di un gestore di successo è di un altro livello. I primi possono permettersi una cantina ben fornita, i secondi si comprano un’azienda vinicola.
Quasi efficienti
Oltre alla doppia tentazione di ego e lucro, bisogna comunque dire che spesso anche i sostenitori più accaniti dell’efficienza di mercato, e quindi dell’indicizzazione, mancano di totale fiducia. Sì, i mercati finanziari sono in genere spietatamente efficienti nell’assorbire la conoscenza complessiva degli investitori incorporando quelle intuizioni nei prezzi azionari, ma tutti abbiamo visto verificarsi cose difficilmente spiegabili. Prendiamo ad esempio il momentum - l'idea che le azioni che hanno relativamente sovraperformato nel corso degli ultimi mesi siano suscettibili di farlo anche nel corso dei prossimi. Storicamente, sembra in effetti essere così in molti casi. Il perché rimane senza risposta.
Così come senza risposta rimangono le ragioni dietro il crollo del famoso black monday (lunedì nero) del 1987 in cui il mercato Usa perse il 22% in una seduta; nessuna notizia nei giorni precedenti avrebbe mai potuto far pensare a una possibilità del genere. Stesso discorso per la bolla tecnologica di fine anni ’90.
Grattacapi del genere, tuttavia, accadono di rado. Di norma, quando il valore di un titolo sembra molto sbagliato a un osservatore, è l'osservatore che ha bisogno di rivedere le proprie analisi, non il titolo in sé.
Poi ci sono dei specifici fattori, come ad esempio l'inclinazione del DFA verso aziende più piccole e sottovalutate. Caratteristiche che possono portare rischi in più, ma che in teoria sono accompagnati da maggiori rendimenti. Creare dei portafogli che contengono aziende esposte a specifici fattori, escludendo le altre, può non essere considerata una gestione attiva nel senso tradizionale. Ma è comunque una gestione attiva in un certo senso. Implicitamente, quindi, dal suo coinvolgimento nel DFA, Eugene Fama sostiene una certa posizione sull’attività d’investimento, lasciando però che siano altri a metterla in pratica.
In sostanza, ha senso che gli esperti finanziari raccomandino la replica passiva all’investitore medio, e ha senso - psicologicamente, finanziariamente e intellettualmente – che loro facciano diversamente. Il conflitto esiste, ma anche le ragioni dietro di esso.
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