Titoli di settori difensivi, che abbiano un buon vantaggio competitivo e un livello basso di incertezza. Sono queste, secondo gli analisti di Morningstar, le caratteristiche che devono avere le azioni da mettere in portafoglio se si vuol far fronte alla prossima recessione. Resta da capire se veramente una frenata dell’economia sia all’orizzonte. La regione più a rischio, in questo senso, sembra essere quella degli Stati Uniti.
A dirlo è, per esempio, la statistica: secondo i dati elaborati dal National Bureau of Economic Statistic, nella loro storia recente gli Usa hanno vissuto 11 periodi recessivi: quasi due per ogni decennio. Quello terminato nel giugno del 2009 è stato il più lungo. E ormai sono sette anni che l’America non vede una frenata seria. Poi ci sono le condizioni macroeconomiche. E non solo quelle attuali. Il Pil Usa nel 2015 ha subito una decelerazione passando dal +2,5% del 2014 al +1,9% dei quattro trimestri dell’anno scorso. Le previsioni di Robert Johnson, capo della ricerca economica di Morningstar, per il 2016 parlano di un prodotto interno lordo che dovrebbe crescere in una forchetta compresa fra il 2% e il 2,5%.
Chi parla di recessione
Ma, nell’ottica di una eventuale recessione, ci sono altri elementi da tenere in considerazione. Ad esempio il restringimento delle condizioni finanziarie. Quando, alla fine dell’anno scorso, la Federal Reserve ha deciso di iniziare ad alzare i tassi di interesse per la prima volta dal 2006, i gestori hanno cominciato a far girare i portafogli, gli spread del mercato del credito si sono allargati e il dollaro si è apprezzato. E proprio la Banca centrale Usa potrebbe dimostrarsi un ulteriore elemento di incertezza. Accusata di non saper comunicare con i mercati quando si stava avvicinando al rialzo dei tassi alla fine dell’anno scorso, oggi non sembra aver imparato la lezione. Nelle settimane scorse tutti i membri del FOMC (Federal open market committee, il braccio operativo della Banca centrale Usa) nei loro interventi hanno sostenuto la linea dura, ribadendo con convinzione i propositi di procedere ad una politica monetaria restrittiva riferendosi anche in maniera esplicita a una nuova stretta a giugno. Il 29 marzo, il governatore, Janet Yellen, nel suo discorso all'Economic Club di New York, ha in qualche modo rimesso tutti al loro posto, correggendo il tiro. Ha insistito sulla cautela che l'istituto centrale deve mantenere nel decidere la rotta di politica monetaria, definendo contradditorie le indicazioni provenienti dai dati. Ha spiegato che l'interventismo anche rapido sarebbe preso in considerazione nel momento in cui l'economia dovesse vivere una fase di accelerazione importante. Inoltre ha parlato del dollaro americano e del petrolio i cui prezzi, a suo avviso, potrebbero rispettivamente salire e scendere a causa di turbolenze esterne.
Ci vorrebbero dei numeri
Nel frattempo a Constitution Avenue si fanno i conti con i dati macroeconomici. Gli ultimi sull’occupazione hanno messo in luce ancora una certa solidità del mercato del lavoro statunitense, sebbene con qualche punta di incertezza. I nuovi posti di lavoro creati nel mese di marzo sono stati 215mila contro attese di 205, ma la disoccupazione è risalita dal +4,9 al +5% (sebbene si registri un tasso di partecipazione in lieve miglioramento). “Non vedo il precipitare della situazione”, dice Johnson. “Tuttavia se i prossimi numeri congiunturali ci dessero la conferma che sta andando tutto bene e che non si tratta di rimbalzi dopo i pessimi dati visti a dicembre, allora ci sentiremmo un po’ più tranquilli”.
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