Timeo Dànaos, et dona ferentes (temo i greci, anche quando portano i doni). Citavano l’Eneide gli investitori e i media nei momenti caldi della crisi finanziaria della penisola ellenica che, a partire dal 2009, ha tenuto col fiato sospeso gli investitori di tutto il mondo, preoccupati per il futuro di Eurolandia. Paure che, almeno per il momento, sembrano svanite. L’analisi delle categorie EMEA di Morningstar mostra che il segmento dedicato all’azionario greco nel mese di maggio è stato il migliore grazie a un +11,7% (in euro). Al secondo posto si è piazzato l’equity danese (+6,45%), mentre il podio è stato chiuso dalle biotecnologie (+5,87%). La classifica dei peggiori vede al primo posto l’azionario dedicato alle small cap del Sudafrica e della Namibia, quello turco (-9,28%) e quello brasiliano (-8,52%).
I vincitori
La riscoperta della Grecia stupisce fino a un certo punto. In un mondo alla costante ricerca di fonti di rendimento gli investitori si sono fatti sedurre dalle ultime notizie che riguardano l’Ellade. Dopo mesi di ritardi e di negoziati in stallo, Atene ha raggiunto un accordo preliminare con i suoi creditori che apre la strada a un nuovo prestito da 10,3 miliardi di euro che dovrebbe dare un po’ di ossigeno alla martoriata economia del paese. In aggiunta è stato buttato sulla carta un progetto di alleggerimento dei debiti che dovrebbe portare il Fondo monetario internazionale a riaprire i rubinetti del credito. L’annuncio è sicuramente positivo per il paese. Alcuni analisti, tuttavia, fanno notare che queste decisioni potrebbero non essere sufficienti a rimettere il deficit greco (che ammonta al 180% del Pil) in carreggiata.
Scorrendo i bollettini macro stupisce meno l’interesse per l’equity danese. Il paese, secondo il locale ufficio di statistica, nel primo trimestre dell’anno ha registrato una crescita del Pil dello 0,5% rispetto ai tre mesi precedenti. Un risultato non eclatante, ma superiore alle attese degli economisti che si aspettavano un +0,1%. Il merito della ripresina va a un aumento della domanda domestica e all’incremento delle esportazioni.
Nel frattempo gli investitori continuano a tenere d’occhio le biotech, nonostante la frenata del primo trimestre seguita a una corsa durata cinque anni, caratterizzata da operazioni di fusione e acquisizione e da numerose Ipo (collocamenti). La speranza dei gestori è che adesso tornino i fari sul settore grazie al lancio di nuovi medicinali. Non mancano gli elementi di preoccupazione, come il calo delle spese per la ricerca. Restano i dubbi legati alle politiche di prezzo che queste aziende potranno applicare, soprattutto nell’ambito della riforma sanitaria Usa.
I perdenti
La situazione macro penalizza la categoria dedicata alle small cap del Sudafrica e della Namibia. Le piccole e medie aziende, infatti, sono quelle che per prime subiscono i capricci del ciclo congiunturale. E i dati che arrivano da quella zona del Continente nero non sono per nulla confortanti. Ad esempio, c’è la contrazione dell’attività manifatturiera per due mesi di fila (marzo e aprile) e un tasso di disoccupazione ai massimi dell’ultimo decennio. In questo scenario le agenzie di rating si stanno preparando a tagliare il merito di credito del paese.
Le tensioni geopolitiche, intanto, stanno spingendo gli investitori lontano dalla Turchia. Sul fronte interno il primo ministro, Ahmet Davutoglu, ha perso la battaglia (e si è dimesso) contro il presidente Recep Erdogan. Gli argomenti del contendere riguardavano le ricette per rilanciare l’economia, la gestione della questione curda e la virata del paese verso un sistema decisamente presidenziale. Resta da vedere quale sarà l’atteggiamento dell’Unione europea nei confronti di Ankara. L’accordo fra L’Ue (che avrebbe dovuto dare degli aiuti) e la Turchia sulla gestione dei rifugiati siriani era stato voluto dal premier e, a questo punto, tutto sembra essere tornato nel limbo. Gli elementi positivi sono il basso prezzo del petrolio (nonostante alcuni rimbalzi) e l’atteggiamento attendista della Fed riguardo ai tassi che potrebbe ritardare la fuga dei capitali dai paesi emergenti in genere.
Politica ed elementi macro sono anche i fattori che stanno tenendo gli investitori alla larga dal Brasile. Il paese l’anno scorso ha attraversato la peggiore recessione della storia recente. L’affondo della congiuntura è coinciso con quello della carriera politica del presidente Dilma Rousseff per uno scandalo legato alla corruzione. Questo, insieme alle vendite al dettaglio in contrazione e ai dati arrivati dai direttori d’acquisto (ai minimi degli ultimi sette anni) probabilmente non riusciranno a riaccendere la fiducia degli investitori.
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