Un elevato attivismo del gestore, giustifica il costo più alto di un prodotto di risparmio gestito? “Sciocchezze”, dice Russel Kinnel, che in Morningstar è direttore della ricerca sui fondi in nord America. E lo dimostra con un’analisi sui comparti azionari statunitensi.
“Li abbiamo divisi in quintili in base al grado di active share (misura di quanto è attivo un gestore, ossia di quanto il suo portafoglio si discosta dal paniere dell’indice di riferimento, Ndr)”, spiega. “In particolare, abbiamo considerato il valore di questo indicatore il 1 gennaio 2011 a confronto con la categoria; successivamente abbiamo visto come si sono comportati nel quinquennio terminato al 31 gennaio 2015”.
Risultato? Il quintile con il più alto active share ha registrato un tasso di successo (ossia ha battuto la categoria ed è sopravvissuto a chiusure e fusioni) di un magro 29%, seguito dal secondo quintile con il 27%. Aspetto ancor più sorprendente è che i comparti “meno attivi” hanno un success ratio più alto, pari al 43%.
I rendimenti dei più attivi
Tra i fondi ancora esistenti, i rendimenti dei più attivi sono stati inferiori: il 9,3% contro il 9,7% del quintile intermedio e il 10,6% di quello più basso. Kinnel è arrivato a risultati analoghi considerando il Morningstar risk-adjusted return (ossia la performance aggiustata per il rischio, secondo la metodologia di assegnazione delle stelle). Il quintile più attivo ha una media di 2,6 stelle contro le 3,2 del meno attivo. Il risultato non deve sorprendere, in quanto un maggior attivismo porta generalmente ad avere portafogli più concentrati e quindi più volatili.
Meglio guardare ai costi
Come già dimostrato in passato, la variabile dei costi, è molto più adatta a predire il successo dei fondi. Il quintile più economico dei fondi azionari Usa ha un success ratio del 64% contro il 16% di quello più costoso.
Cosa non è l’active share
Nonostante l’analisi sia stata fatta sui fondi americani, si possono trarre alcuni insegnamenti utili a tutti gli investitori. Innanzitutto è bene non innamorarsi troppo di nessun indicatore statistico e utilizzarlo per quello che realmente misura. Ad esempio, l’active share è spesso usato per valutare le abilità di un gestore, cosa che non è. Se si aggiunge qualche titolo fuori dal benchmark o una posizione corta, non per questo si otterrà un rendimento migliore.
“Penso che l’active share abbia la stessa utilità dell’R-quadro o del tracking error”, afferma Kinnel. “E’ un indicatore del fatto che il fondo si comporti come l’indice o differisca da esso”. E’ bene ricordare che l’R-quadro riflette le oscillazioni che sono riconducibili al benchmark, mentre il tracking error misura lo scostamento di performance di un’attività finanziaria rispetto al paniere di riferimento.
Possiamo dunque definirlo come un indicatore descrittivo del comportamento di un gestore, ma non predittivo. Se, ad esempio, le dimensioni di un fondo aumentano per effetto di forti flussi di capitale e il gestore fa nuovi acquisti di titoli presenti nel benchmark per impiegare la liquidità, l’active share mostrerà un calo, che potrà essere letto come un cambiamento nella strategia di investimento. Non dirà nulla però sulle performance future di quel prodotto.
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