Due anni fa, ho scritto un editoriale che cominciava con queste parole: “I fondi attivi hanno un futuro? Andando diretti al punto: non molto”.
Quando lo dissi, i fondi indicizzati avevano una raccolta record, mentre gli attivi soffrivano i riscatti. Ma quei numeri non erano sufficienti per affermare che i secondi erano veramente in difficoltà. Il trend avrebbe potuto invertirsi.
Dopo aver studiato a fondo il problema, mi sono accorto che la gestione attiva è in una situazione peggiore di quanto si potesse pensare in un primo momento. Le vendite non nascondono buone performance: nella maggior parte delle categorie di fondi, su più periodi temporali, le strategie passive hanno reso di più, spesso con un rischio minore. Inoltre, due grandi segmenti dell’active management erano vulnerabili: azionari internazionali e fondi bilanciati. Allora sostenevo che il pendolo si sarebbe potuto presto spostare nella sfera degli indicizzati. Ed è accaduto.
Se guardiamo ai flussi netti dei fondi passivi statunitensi da inizio 2015 ad oggi (agosto 2016), tutti i segmenti sono positivi, eccetto gli alternativi, dove questo tipo di strategia deve ancora affermarsi.
5 miliardi di dollari di raccolta netta dei bilanciati indicizzati possono sembrare pochi, ma non se si considerano i risultati degli attivi. Inoltre, i numeri per gli azionari internazionali sono esplosi: con poco meno di 120 miliardi nel periodo considerato, hanno raggiunto gli azionari Usa in termini di sottoscrizioni nette.
Gestori attivi più deboli
La notizia è stata un brutto colpo per i gestori attivi. Dai 150 miliardi di flussi netti positivi nell’estate 2014, azionari internazionali e bilanciati si trovano ora in territorio negativo. Inoltre, i riscatti dall’equity Usa sono cresciuti e anche gli alternativi deludono.
Sfortunatamente per i gestori attivi, i dati presentati finora non includono gli Etf (Exchange traded product), ma solo i fondi indicizzati, che rappresentano una fetta delle strategie passive. Aggiungendo i replicanti quotati, i flussi netti aumentano di 300 miliardi negli ultimi 20 mesi.
Come nell’estate del 2014, è difficile dire cosa potrebbe far cambiare il trend. Anche oggi (da inizio anno) i principali indici azionari statunitensi e internazionali fanno meglio dei fondi attivi. Per quanto riguarda gli obbligazionari, il Barclays US Aggregate bond index ha rendimenti simili alle strategie attive. Tuttavia, è bene ricordare che queste ultime dovrebbero battere il benchmark in modo continuativo per lunghi periodi di tempo per convincere gli investitori a tornare verso l’active management.
Tutto come prima
L’errore più comune degli investitori è estrapolare quello che è successo nel recente passato, tre-cinque anni, e assumere che il trend continuerà. Per questa ragione sono cauto nel sostenere che gli indicizzati continueranno ad avere successo. Potrebbero accadere eventi, condizioni di mercato, che fanno migliorare la reputazione delle strategie attive per riportarli se non agli anni gloriosi (’70-’80) ai rispettabili inizi del nuovo millennio. Tuttavia, come nell’estate del 2014 non vedo come ciò possa accadere. Il terreno non sembra pronto. Non è solo questione di performance o di scelte di gestione azzeccate. La situazione è la stessa di due anni fa. E non è buona.
L’analisi è riferita al mercato americano, ma fa riflettere anche in Europa, dove i flussi netti verso i fondi azionari indicizzati è positivo da inizio anno (+10,6 miliardi di euro), mentre verso gli attivi è negativo (leggi il commento dal titolo Agli azionari non bastano gli emergenti di Sara Silano).
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