Closet tracker, ovvero fondi che sono gestiti seguendo quasi fedelmente l’indice, ma hanno i costi di una gestione attiva. Un anno fa, l’Esma, autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, aveva pubblicato uno studio, secondo il quale il 15% degli azionari “attivi” avrebbe potuto essere classificato come semi-passivo. Siccome uno dei suoi obiettivi primari è la tutela degli investitori, l’authority sollecitava ulteriori indagini da parte delle Consob locali ed eventuali azioni comuni per aumentare la trasparenza da parte degli operatori di mercato.
Il caso norvegese
Dopo un anno, il tema continua a essere al centro dell’attenzione. La Norvegia è probabilmente il paese dove ci sono state le conseguenze maggiori. L’autorità di vigilanza ha pubblicamente ripreso DNB, la principale società di gestione, perché applicava commissioni troppo elevate sul suo più grande fondo azionario norvegese, nonostante avesse un active share (misura di quanto il portafoglio si discosta dall’indice) basso. L’asset manager ha quindi provveduto a ridurre i costi e aumentare la gestione attiva. Ma la vicenda non si è conclusa così. Recentemente, l’autorità di tutela dei consumatori ha vinto la causa, intentata per conto di 180 mila clienti del fondo, per il risarcimento dei danni.
I paesi nordici, in particolare Svezia e Irlanda, oltre alla Norvegia, sono stati i primi ad incrementare i controlli sui cosiddetti closet tracker. Recentemente il regulator di Stoccolma ha reso noti alcuni nomi di società con fondi a basso active share, non dando, però, una precisa descrizione delle caratteristiche prese in considerazione.
Cosa succede in Italia
L’Italia non è rimasta a guardare. Interpellata da Morningstar, la Consob ha fatto sapere di tenere sotto osservazione il fenomeno. “Nell’ambito dell’attività di vigilanza su base continuativa è stato monitorato (e continua a esserlo tramite specifiche analisi) il fenomeno dei c.d. closet indexing funds, ovvero dei fondi che, pur dichiarando uno stile di gestione attivo, manifestano ex post ‘scelte gestorie’ decisamente allineate al parametro di riferimento”, fanno sapere dall’autorità di vigilanza. “Ciò in considerazione del possibile detrimento per gli investitori giacché agli stili gestionali più attivi sono, generalmente, abbinati livelli commissionali più elevati. L’output di tali analisi si è, normalmente, tradotto in azioni volte a sollecitare da parte dei soggetti interessati una modifica dello stile di gestione (e del regime commissionale) come rappresentato nella documentazione d’offerta”. L’authority tuttavia non fa nomi.
Una ricerca Morningstar, realizzata su un universo ristretto, quello degli Azionari Europa large cap, nel marzo scorso, aveva fatto emergere un quadro poco incoraggiante in Italia, con più di un gestore su due semi-passivo. Pur essendo interessante, il dato però è riferito a un campione limitato per cui le conclusioni non possono essere estese a tutto l’universo dei prodotti domestici.
Le critiche francesi
Differente è stato l’approccio della Francia. L’Autorité des Marches Financiers che ha criticato il metodo usato dall’Esma l’anno scorso, affermando che active share e tracking error non sono misure sufficienti per identificare questi prodotti. Secondo quanto riportato da Ignites Europe, l’Amf ha dichiarato anche “pericoloso” scoraggiare l’uso del benchmark da parte dei fund manager, perché è uno strumento di comparazione utile agli investitori finali.
L’autorità di vigilanza francese non è l’unica ad aver contestato le metriche usate dall’Esma. Nel luglio scorso, infatti, l’associazione delle società di gestione europea (Efama) aveva detto che tale approccio può portare a incomprensioni e sottolineato la necessità di tenere in considerazione più fattori. In particolare, si era mostrata in disaccordo nel considerare automaticamente closet tracker i fondi con active share inferiore al 60%.
I limiti dell’active share
“Utilizzare una soglia minima di active share per definire un gestore attivo è inappropriato”, afferma Francesco Paganelli, analista di Morningstar. “L’active share dei fondi di una categoria può essere più o meno basso in funzione principalmente della struttura del benchmark. Una ricerca Morningstar del 2016, ad esempio ha evidenziato che per un azionario Italia (il cui indice è piuttosto concentrato) è difficile raggiungere un active share superiore al 50%, e nei casi in cui avviene, è spesso grazie all’aumento dell’esposizione alle small cap. Per contro, tra i fondi che investono in sociatà a piccola capitalizzazione è generalmente più facile ottenere un active share alto, proprio perché questi indici contano un elevato numero di titoli e spesso non c’è un gruppo ristretto di azioni che ne rappresenta la porzione principale”.
Infine, è bene ricordare che l’active share si dimostra come un buon descrittore dello stile di gestione, ma i dati evidenziano come non sia un buon “predittore” delle performance future. “Statisticamente, i costi restano il fattore più affidabile per predire i risultati relativi futuri di un fondo”, conclude Paganelli.
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