La crisi del 2007-08 ha fatto toccare con mano a molti investitori il rischio di un investimento finanziario. Nel 2011 anche i BoT people, i risparmiatori in titoli di stato, hanno scoperto che non esistevano più “pasti gratuiti”. Ecco perché in dieci anni, la popolarità degli strumenti a bassa volatilità è aumentata in modo significativo. Secondo uno studio Morningstar dal titolo “Low volatility: searching for a durable edge”, l’offerta in Europa è passata da una dozzina di prodotti a 89 a fine 2016, di cui 63 fondi tradizionali e 26 Exchange traded fund (Etf).
L’ascesa dei low volatility
Nello stesso periodo, le masse europee sono decuplicate, raggiungendo i 39,9 miliardi a dicembre 2016, di cui l’85% in strategie attive e il 15% in quelle passive. Queste ultime, tuttavia, hanno catturato sempre più l’interesse degli investitori negli ultimi anni. Con i mercati finanziari sulle montagne russe per molto tempo, i fondi a bassa volatilità hanno rappresentato una fonte rendimento, soprattutto nel 2008 e 2011, quando l’indice Msci World Minumum volatility ha battuto di oltre il 10% l’indice Msci azionario globale. Anche successivamente, hanno continuato a dare ritorni positivi in termini relativi.
Nello studio sono state prese in considerazione le principali categorie di strumenti a bassa volatilità presenti nel Vecchio continente, ossia gli azionari globali, emergenti, Europa e Stati Uniti. In tutti i casi, i flussi di raccolta sono stati indipendenti da quelli dei fondi tradizionali. Morningstar ha stimato un saldo netto positivo per quasi 27 miliardi dal 2012 a fine 2016. L’anno scorso, le differenze maggiori si sono registrate nei prodotti con focus sulle Borse europee: in quelli low volatility sono entrati circa 156 milioni netti, mentre dagli Europe large cap blend ne sono usciti 19,5 miliardi. Una discrepanza analoga aveva caratterizzato i mercati emergenti l’anno precedente. Nel primo caso, ad agitare gli investitori sono stati i timori legati a Brexit e a una possibile disgregazione dell’area euro; nel secondo un mix di debolezza congiunturale della Cina, calo dei prezzi delle materie prime e attese di rialzo dei tassi di interesse americani.
Test superato
Disegnati per ridurre la volatilità rispetto agli investimenti tradizionali, i fondi low volatility hanno mantenuto la promessa nel medio e lungo periodo. L’analisi di Morningstar mostra che è dall’11 al 25% più bassa a tre e cinque anni rispetto all’indice di riferimento. L’efficacia è maggiore sui mercati del Vecchio continente rispetto a quelli americani, che non solo hanno beneficiato di una crescita più stabile, ma sono anche più efficienti e quindi difficili da battere per i gestori attivi.
Sul fronte dei rendimenti, i risultati sono misti. Nel triennio, hanno in media sovraperformato gli indici Msci europei, area euro e globali, ma non quelli americani ed emergenti. Negli ultimi dodici mesi (a febbraio 2017), tutti i fondi analizzati hanno reso meno dei benchmark tradizionali, a causa principalmente del rally di Borsa e della rotazione settoriale.
Considerato il loro obiettivo primario, ossia mantenere bassa la volatilità, questi fondi vanno valutati ancor più degli altri dal punto di vista del profilo di rischio/rendimento. In tal senso un valido indicatore è lo Sharpe ratio. Le statistiche Morningstar, mostrano una miglior performance di quasi tutte le categorie a tre e cinque anni (gli azionari Usa low volatility fanno eccezione nell’orizzonte quinquennale).
Giuste aspettative
Per concludere, gli analisti di Morningstar riconoscono i benefici di queste strategie in termini di diversificazione del portafoglio, ma avvertono che è importante parametrare le proprie aspettative al momento in cui si sottoscrive un fondo di questo tipo. La crescita della popolarità e delle valutazioni dei titoli a bassa volatilità, infatti, fa sì che i ritorni in futuro possano essere più bassi rispetto all’ultimo decennio.
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