Asia emergente: +15%. Europa emerging: -0,38%. America latina: +7%. Global emerging market equity: +11,2%. Basta dare un’occhiata all’andamento da inizio anno (in euro) di alcune categorie dedicate ai mercati in via di sviluppo (ma le differenze si vedono anche con orizzonti temporali più lunghi) per capire quanto questo universo, al quale spesso ci si riferisce come una monade, sia in realtà molto più variegato. Attualmente il creatore di indici Msci identifica 24 paesi emergenti: Brasile, Cile, Cina, Colombia, Corea, Egitto, Emirati arabi uniti, Filippine, Grecia, India, Indonesia, Malaysia, Messico, Pakistan, Perù, Polonia, Russia, Qatar, Sud Africa, Taiwan, Thailandia, Turchia, Repubblica ceca, Ungheria. Andando indietro di 30 anni questo segmento contava solo 10 paesi che rappresentavano l’1% del valore azionario mondiale disponibile agli investitori privati. Oggi sono il 15% dell’universo investibile. Nel decennio iniziato nel 2003 sono passati dal rappresentare il 24% del Pil mondiale al 43%. “Purtoppo per quelli che cercano di investire negli emerging market non c’è una definizione univoca di questo asset di investimento”, spiega Simon Dorricott, analista di Morningstar. “Le classificazioni sono molto differenti a seconda della società che li segue”.
Morningstar si basa sulla classificazione fatta dalla World Bank che parte dall’economia di un paese e, in particolare, dal reddito procapite. “Quelli con il reddito più alto sono gli sviluppati, mentre quelli che hanno redditi bassi o medi rispetto ai developed sono considerati emergenti o, detto in altro modo, in via di sviluppo”, dice Dorricott. “Un’altra cosa che caratterizza gli emerging è il fatto di avere un mercato borsistico volatile, poco diversificato e con società che hanno bassi livelli di corporate governance”.
L'importanza di essere emerging
I creatori di indici di solito esaminano gli sviluppi economici dei singoli paesi, le dimensioni, la liquidità e l’accessibilità al mercato da parte degli investitori stranieri prima di includerli in un universo specifico. Se uno stato viene considerato emerging market significa che i fondi attivi e passivi che utilizzano quel determinato benchmark iniziano a mettere in portafoglio le sue società quotate. Questo, a catena, si traduce in significativi flussi di investimenti esteri per il paese in questione. A giugno del 2013, Msci ha annunciato il progetto di alzare al rango di emergenti da frontier il Qatar e gli Emirati arabi uniti. Secondo i calcoli fatti all’epoca da HSBC questo per i due paesi avrebbe significato 800 milioni di dollari di nuovi investimenti da parte di operatori esteri che avrebbero visto i due mercati sotto una nuova luce. Più di recente la società degli indici ha annunciato di voler includere nei panieri emerging le azioni cinesi di classe A (quelle quotate nel paese e fino ad ora destinate oltre che agli investitori locali a pochi operatori stranieri). Una mossa che aumenterà la presenza delle azioni del paese nei fondi che seguono quel benchmark. “Tutto questo non significa che gli emerging siano un asset privo di rischi”, spiega Dorricott. ”Si tratta di mercati molto volatili. Eventi macro come la recessione globale hanno colpito duramente i paesi in via di sviluppo e alcuni non si sono ancora ripresi completamente. C’è poi chi continua a puntare sulle esportazioni e sulle commodity mentre altri, come ad esempio la Cina, stanno spostando l’economia sui consumi interni”.
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