Qual è il futuro dell’economia cinese? Gli analisti si dividono tra ottimisti e pessimisti. I primi confidano nella crescita dei consumi interni. La ricchezza del paese è distribuita ancora in maniera disomogenea, tra le province interne (più arretrate) e quelle sulla costa (dove l’aumento del reddito medio pro-capite della popolazione promette di trascinare l'espansione del Pil). A sostegno di questa tesi c’è la passata esperienza di Giappone, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, che hanno continuato a progredire a ritmi superiori al 7% anche dopo aver raggiunto il livello di ricchezza nel quale si trova la Cina in questo momento.
Gli analisti di Morningstar, invece, si schierano tra i pessimisti. Le loro stime, che indicano la contrazione della crescita annua del Pil dall’attuale 6,7% al 4% nei prossimi cinque anni, sono inferiori sia rispetto a quelle del Fondo monetario internazionale, che prevede nello stesso periodo un tasso medio di poco inferiore al 6%, che a quelle del piano quinquennale del Governo di Pechino, che invece mantiene l’asticella saldamente sopra il 6% (Figura 1). Le ragioni che spiegano questa scarsa fiducia nel futuro del Dragone? Il calo della produttività.
Figura 1: Previsioni della crescita del Pil cinese a confronto
Tutta colpa della produttività
A questa risposta gli analisti di Morningstar ci arrivano scomponendo la ricchezza prodotta dal paese, come insegna la teoria economica, nel contributo offerto dai tre fattori di crescita: guadagno di produttività (TFP, Total Factor Productivity), investimenti e impiego di forza lavoro. Il grafico mostra come il contributo del TFP si sia dimezzato dal 2000 a oggi e questo perché le variabili che ne hanno spinto la crescita fino ad ora (tecnologia, investimenti, impiego nel manifatturiero e trend demografico) hanno ormai esaurito il loro effetto.
Figura 2: Le fonti di crescita del Pil cinese
La capacità di apprendere e copiare le nuove tecnologie ha permesso alla Cina di diventare uno dei principali esportatori di manufatti (19% sul totale). A favorire questo processo di apprendimento hanno contribuito diversi fattori. La Cina ha tratto vantaggio dal timing in cui questo fenomeno si è verificato: i nuovi strumenti di comunicazione, quali computer e Internet, e agli accordi commerciali, che hanno favorito l’afflusso di capitali dall’estero, hanno facilitato il compito del Dragone. Il Governo ha inoltre svolto un ruolo fondamentale, permettendo l’ingresso di aziende estere sul territorio cinese solo attraverso joint-venture con quelle locali o, forte del suo ruolo di azionista delle maggiori banche del Paese, facilitando il prestito a quelle società alle prese con operazioni M&A a scopo di apprendimento di nuova tecnologia. A tutto questo, poi, si aggiunge la logistica favorevole che la ha agevolata nell’accesso alle materie prime offerte dai paesi fornitori dell’Asia orientale e della manodopera interna a basso costo. Per continuare ad avere un’alta produttività anche in futuro la Cina sarà costretta a cambiare registro. Dofrà smettere di essere un semplice imitatore per diventare un innovatore, ma questo è un passaggio più complicato e meno scontato nella sua realizzazione.
Altro fattore determinante per la crescita della produttività del paese è stato il movimento migratorio dalle campagne verso le città. Dal 1990 a oggi il tasso di urbanizzazione è salito dal 26% al 57% e questo si è tradotto in un aumento di oltre 300 milioni di occupati nel settore dei servizi e del manifatturiero. Comparti che hanno un output per lavoratore quattro/cinque volte più alto di rispetto a quello dell’agricoltura. La popolazione di under 30 che lascia la campagna per la città è in costante flessione negli ultimi otto anni e questo è un processo che continuerà a ritmi sempre più alti anche nel futuro.
I freni naturali della produttività
Il Dragone deve scontrarsi anche con problematiche ineludibili come il progressivo deterioramento del rendimento degli investiti e lo sfavorevole trend demografico. La teoria economica spiega che all’aumentare del capitale investito diminuisce il ritorno di ogni impiego aggiuntivo. I dati mostrano come la produttività del capitale (in termini di Pil prodotto) sia ora pari al 50% rispetto a quella del 2007 ed è destinata scendere sempre più velocemente nel tempo in seguito all’aumento degli investimenti.
Negli ultimi 40 anni la Cina ha tratto beneficio da dinamiche demografiche favorevoli: il calo della fertilità (a causa dell’introduzione della politica del figlio unico) e la crescita del tasso di urbanizzazione, unita all’abbassamento della mortalità, hanno fatto salire la percentuale della popolazione in età lavorativa in rapporto al numero di anziani e bambini (il cosiddetto support ratio). L’espansione della categoria con la più alta propensione al risparmio è stato un bene per l’economia del Dragone, poiché grazie a questi risparmi è stato possibile finanziare nuovi investimenti e dunque alimentare la crescita del Pil.
La Cina è però già entrata nella fase demografica successiva, in cui la categoria che registra i tassi di crescita più alti è quella degli anziani. Questa è una cattiva notizia per l’economia del paese, poiché significa che i cinesi risparmieranno sempre meno e ci saranno meno risorse per finanziare gli investimenti.
I rischi
Le fonti che hanno alimentato la crescita della produttività cinese negli ultimi decenni andranno dunque a esaurirsi progressivamente nei prossimi anni e questo espone Pechino a due grandi rischi. Il primo è quello della crescita preoccupante dell’indebitamento. Venendo meno il contributo offerto dai guadagni di produttività, infatti, l’unica variabile su cui potrà agire il Governo sarà quella del capitale. Quindi, nonostante il rendimento degli investimenti sia più basso che in passato, gli impieghi di capitale continueranno a salire.
Negli ultimi dieci anni il rapporto Debito/Pil è quasi raddoppiato salendo al 250%, un livello di indebitamento due volte più alto rispetto alla media degli altri paesi inseriti dalla Banca mondiale nella categoria middle income (con reddito pro-capite tra i 1.036 e il 12.615 dollari). Il secondo rischio è quello di cadere nella cosiddetta trappola del reddito medio, ovvero di non avere le energie necessarie per fare lo step successivo ed entrare nell’élite dei paesi high income. I dati mostrano come dal 1960 a oggi solo 13 paesi su 96 siano stati in grado di fare il salto di qualità e che la causa principale di questo fenomeno sia stata proprio il calo della produttività.
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