Le strategie di investimento basate su fattori (factor investing) sono sempre più di moda, ma non sono una novità. Già nel 1934, Benjamin Graham e David L. Dodd pubblicavano Security Analysis, uno dei libri sulla finanza più di successo tra gli investitori in tutto il mondo, in cui teorizzavano l’approccio value. Lo stesso può essere detto del momentum, che fu catturato nel libro Reminiscences of a stock operator di Edwin Lefèvre, pubblicato nel 1923.
Dov’è la novità
Quello che è nuovo, ha detto Andrew Ang di BlackRock all’ultima Morningstar Etf conference di Chicago lo scorso settembre, è la modalità con cui gli investitori possono accedervi. Gli strumenti indicizzati, infatti, rendono possibile a chiunque avvicinarsi alle strategie fattoriali a un costo più che ragionevole.
I trend globali
Secondo l’Invesco Global Factor Investing Study, realizzato su 108 diversi fondi pensione globali, compagnie d'assicurazione, fondi patrimoniali sovrani, consulenti finanziari e patrimoniali, banche e intermediari di 19 Paesi che rappresentano in totale oltre 7 mila miliardi di euro di patrimonio gestito, gli investitori retail incrementeranno in modo consistente la quota destinata alle strategie fattoriali (17%) entro il 2022, spingendo le allocazioni di portafoglio circa allo stesso livello di quelle degli investitori istituzionali, che dovrebbero salire al 18% nei prossimi cinque anni.
Rispetto alla stessa indagine del 2016, quest’anno la quota di portafoglio dedicata a queste strategie è passata dal 12 al 14%. L’interesse per il factor investing è in crescita sia negli Stati Uniti, dove lo strumento preferito è lo Strategic beta; sia in Europa, dove prevale l’utilizzo di prodotti quantitativi.
Distribuzione degli asset per fattori
Fonte: Invesco Global Factor Investing Study
Strategie multi-fattoriali
Oltre ad essere uno dei fattori più antico, il valore è anche quello considerato più semplice da implementare, seguito da “low volume” (titoli a basso volume di transazioni) e “low volatility” (bassa volatilità). Tuttavia, vi è una tendenza sempre più pronunciata a combinare insieme più variabili.
In Europa, ad esempio, gli Exchange traded product value puri sono una ventina, per un patrimonio di 6,2 milioni di dollari, pari all’11,2% degli asset degli Strategic beta nel Vecchio continente (dati Morningstar al 30 giugno 2017). Le strategie multi-fattoriali, nelle quali l’orientamento al valore può essere una componente, sono 64 e rappresentano il 15% del totale.
Negli Stati Uniti, invece, le strategie value pure rappresentano circa il 24% del patrimonio totale e sono, insieme a quelle orientate sui dividendi le più importanti, con 150 miliardi di asset ciascuna (dati Morningstar al 30 giugno 2017).
Valore o dividendi?
La differenza tra le due regioni non è solamente legata alla diversa fase di sviluppo delle strategie fattoriali sulle due sponde dell’Oceano, con gli Stati Uniti più avanti rispetto all’Europa. In America, un’ulteriore spiegazione viene dalla rotazione di mercato, che ha spinto molti investitori a cogliere le opportunità offerte dalle più basse valutazioni dei titoli value rispetto ai growth. Nel Vecchio continente, l’approccio più diffuso è quello dividend screened/weighted che risponde alle esigenze di rendimento in un contesto di bassi tassi di interesse. Inoltre, la crescita delle strategie multi-fattoriali è legata all’elevato numero di prodotti azionari basati su un solo fattore, che lascia poco spazio a chi vuole entrare sul mercato.
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