Gli investitori pazienti e in cerca di alti rendimenti possono contare su un’alternativa nelle loro scelte di portafoglio: il private equity. Cioè l’investimento nel capitale di rischio di società non quotate. Essa offre ritorni tendenzialmente elevati perché le aziende in questione sono tipicamente di piccole dimensioni e sono nelle fasi iniziali della loro vita, dunque hanno alte prospettive di crescita, ma dall’altra parte si caratterizza per prodotti con un profilo di rischio più accentuato e molto poco liquidi, poiché non trattandosi di public company non è possibile liquidare la propria posizione in ogni momento.
Come investire nel private equity
Ci sono vari modi per investire in private equity (PE): quello diretto in un fondo di PE, soluzione che ha zero costi di intermediazione ma è la più rischiosa, poiché richiede una capacità di analizzare i conti e il modello di business delle società che ne fanno parte; quello indiretto in fondi o Etf che investono in società di private equity come ad esempio, tra quelli autorizzati alla vendita in Italia, i comparti Esperia Funds SICAV Duemme Private Equity Strat C Cap e SEB Listed Private Equity Fund C, o gli ETF db x-trackers LPX MM Private Equity UCITS ETF 1C, Lyxor UCITS ETF Privex D-EUR (EUR) | PVX, PowerShares Global Listed Private Equity UCITS ETF (EUR) | PSP, Penghua SSE Private-owned Enterprises 50 Index ETF | 510070 o ProShares Global Listed Private Equity ETF | PEX che cercano di replicare indici rappresentativi di panieri di società di PE. Oppure in un fondo di fondi, la forma più costosa, poiché aggiunge un secondo livello d’intermediazione, che però permette una maggiore diversificazione dell’investimento.
I risparmiatori hanno anche la possibilità di investire in una delle oltre 20 società di private equity quotate a Piazza Affari (vedi Figura 1), una scelta, questa, che permette di evitare il problema delle soglie minime di ingresso dei fondi ma che costringe gli investitori a fare attenzione alla qualità di queste gestioni. E poi ci sono soluzioni di mezzo tra quelle elencate in precedenza come le stock dei listini AIM (Alternative Investment Market) del London Stock Exchange e i feeder funds.
Le prime danno la possibilità di entrare nel capitale sociale di un’impresa che tipicamente è nelle sue prime fasi di evoluzione, ma al tempo stesso di utilizzare uno strumento più liquido di un fondo di private equity. I secondi, invece, sono fondi promossi dagli stessi fondi di PE (detti “master”) che nascono con il preciso obiettivo di raccogliere capitali che andranno a finanziare il comparto master in maniera indiretta.
Figura 1: Società di private equity quotate a Piazza Affari
Il successo del private equity si spiega con il fatto di essere funzionale ad entrambe le parti in causa. Da un lato, il fondo punta a ottenere rendimenti del capitale superiori a quelli di mercato, mentre dall’altro, l’azienda riceve risorse finanziare aggiuntive e, generalmente, anche un sostegno dal punto di vista manageriale e organizzativo. I fondi possono entrare nel capitale societario in diversi momenti del ciclo di vita di un’azienda: nella fase di start-up (attraverso operazioni di venture capital); in quella di espansione, quando è chiamata a finanziare il processo di allargamento dimensionale o quello di internazionalizzazione del business; nella fase di ristrutturazione, quando rilevano una quota di minoranza o di controllo della società. L’uscita, che avviene tendenzialmente dopo un ciclo di 10-15 anni, si realizza con la cessione della quota al socio originario (buyback) o a un altro fondo di private equity sul mercato secondario, in seguito alla vendita dell’azienda a un terzo soggetto imprenditoriale o alla quotazione della stessa in Borsa (Ipo).
PE in Italia
Il mercato del private equity è molto diffuso nel mondo anglosassone, mentre in Italia è ancora marginale. Secondo Pitchbook, i capitali investiti nel Belpaese sono pari al 5% di quelli allocati complessivamente in Europa (Figura 2), che a sua volta rappresenta il 35% del mercato globale. E questo nonostante negli ultimi tre anni il flusso di denaro verso questa forma di impiego sia aumentata in maniera significativa (si veda il salto registrato dal 2014 ad oggi).
La bassa incidenza sorprende per due motivi. Il primo è legato alla conformazione del tessuto imprenditoriale italiano, fatto di piccole imprese che avrebbero necessità di reperire capitali alternativi ai prestiti bancari e di migliorare la governance societaria, che è esattamente l’esigenza a cui rispondono i fondi di private equity. Il secondo si riferisce agli elevati rendimenti realizzati da questo strumento. La Figura 3 mostra come negli ultimi 10 anni il ritorno annuo lordo aggregato (Internal rate of return, IRR) sia stato superiore al 10%, pari a più due volte la performance registrata dal mercato azionario globale, mentre molto più staccati sono quelli di Europa e Italia (rispettivamente -0,15% e -5%).
Figura 2: Capitale investito in PE in Italia
Figura 3: Rendimento annuo fondi PE e Venture Capital
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