Dopo un 2017 di calma piatta, gli investitori si sono improvvisamente ritrovati a fare i conti con l’ondata di volatilità che ha investito i mercati in questo inizio di febbraio. In realtà, momenti del genere sono tutto tranne che inediti. Nel corso degli ultimi anni, gli operatori hanno dovuto fare i conti con una moltiplicazione delle fasi di alta volatilità e di forte incertezza sui listini. Non sorprende, dunque, che in tale contesto i fondi che mirano a contenere le oscillazioni di portafoglio abbiano attirato flussi importanti, in particolare dal 2015 in poi.
La logica dietro queste strategie, note come “minimum volatility” o “minimum variance” consiste nel selezionare e ponderare i titoli basandosi sulla volatilità storica e il livello di correlazione tra i componenti dell’indice replicato. La varianza di un portafoglio è una misura statistica della dispersione dei rendimenti intorno alla media, usata per indicare il rischio di portafoglio.
A un maggiore interesse del mercato non è mancato un ‘ampliamento dell’offerta: secondo i dati di Morningstar, si contano attualmente in Europa 106 strumenti di questo tipo, di cui 47 Exchange traded fund (Etf) e 59 fondi aperti tradizionali. Erano 89 a fine 2016.
Sul lungo periodo, il rischio non vince sempre
Come si evince dalle due tabelle sottostanti, gli indici a bassa volatilità hanno in effetti saputo contenere i movimenti estremi del mercato di riferimento, soprattutto su periodi più estesi.
Nonostante questi prodotti siano per definizione di tipo difensivo (vengono normalmente scelti dagli investitori al fine di limitare le perdite potenziali) è interessante notare come sui lunghi periodi, 10 o cinque anni, molti benchmark segnino performance inferiori alle loro controparti a bassa volatilità.
Promesse mantenute
Scendendo nei dettagli di due importanti categorie Morningstar (Azionari Europa Large-Cap Blend e Azionari USA Large-Cap Blend), notiamo come i fondi di questo tipo siano riusciti a ottenere una volatilità inferiore (espressa nelle tabelle seguenti come Standard Deviation) rispetto alla categoria di riferimento (in particolare su tre e cinque anni), riuscendo anche in alcuni casi a offrire un rendimento superiore.
Il rischio non è eliminato
Il fatto che queste strategie abbiano in molti casi centrato l’obiettivo non le rende assolutamente esenti da rischi. Secondo uno studio Morningstar dal titolo Low volatility: searching for a durable edge, le strategie a bassa volatilità tipicamente sostituiscono il rischio di mercato con l'esposizione ad altri rischi potenzialmente indesiderabili.
In particolare, i portafogli low volatility hanno un’elevata sensibilità alle stime di correlazione e possono quindi portare un rischio di concentrazione significativo, come rispecchiano i forti sovrappesi nei settori difensivi come i beni di consumo o le utility. Inoltre, questi strumenti possono incappare in valutazioni eccessive, soprattutto nella gestione passiva. Le strategie a bassa volatilità che si concentrano solo sulla volatilità storica non tengono conto della valutazione. In alcuni periodi, le azioni a bassa volatilità diventano più costose perché gli investitori avversi al rischio preferiscono le loro caratteristiche difensive e la loro stabilità.
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