Non sono solo il carbone o le armi controverse che i gestori di fondi vogliono escludere del tutto dai loro portafogli. La lista si sta allungando e di recente diverse società, tra cui BNP Paribas e Robeco, hanno annunciato l’intenzione di uscire totalmente dall’industria del tabacco. La decisione riguarda tutta la gamma di prodotti, non solo quelli con mandato socialmente responsabile, che già lo facevano in passato.
Quello del fumo è un problema di salute pubblica: l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che ogni anno sia la causa della morte di circa sei milioni di persone in tutto il mondo. Se consideriamo, poi, che la maggior parte dei consumatori si trova nei paesi in via di sviluppo o comunque in situazioni di povertà, capiamo che i danni sono più generali, perché l’acquisto di sigarette può avvenire a discapito di quello per il cibo o per l’istruzione dei figli. Inoltre, i costi sociali sono altissimi: si stima che ogni anno mille miliardi di dollari servano per curarsi o siano il prezzo della perdita di produttività.
Una Convenzione quadro per il controllo del tabacco
Per proteggere le generazioni presenti e future dai danni del tabacco sono state intraprese diverse iniziative a livello internazionale. Nel 2003 l’Oms ha approvato all’unanimità la Convenzione quadro per il controllo del tabacco, cui hanno aderito 175 Paesi, inclusa l’Italia. A dicembre 2017, la Commissione europea, insieme agli Stati membri, ha lanciato un programma per fornire supporto alle politiche di contrasto del tabagismo, il Joint action on tabacco control.
Quanto tabacco nei fondi
Ma quanto pesa l’industria del tabacco nei portafogli azionari dei fondi e degli Etf (Exchange traded product) disponibili agli investitori europei? Un’analisi realizzata da Thomas Furuseth, ricercatore di Morningstar, su circa 9.400 prodotti, mostra valori medi che vanno dall’1% per quelli domiciliati in Norvegia ad oltre il 3,7% della Grecia. Da questo punto di vista, i comparti italiani sono tra i più virtuosi con un’esposizione media dell,1,37%, mentre quelli inglesi sono tra i peggiori (3,66%). I lussemburghesi e gli irlandesi, molti dei quali sono disponibili in Italia, hanno percentuali comprese tra il 2,5 e il 2,2%. Nei principali mercati europei, il peso del tabacco è generalmente inferiore a quello di altre industrie dei “vizi”, soprattutto delle bevande alcoliche.
L’analisi delle categorie Morningstar rivela, invece, che la più esposta è quella dei beni di consumo (in media l’8,8%), seguita dagli Azionari con focus sul Regno Unito, dove sono quotati big del settore come British American Tabacco e Imperial Brands, con percentuali superiori al 5% e dall’Equity globale specializzato sui titoli ad alto dividendo.
I rischi finanziari
La decisione di uscire dall’industria del fumo ha sicuramente ragioni sociali, ma anche finanziarie. Il settore, infatti, ha affrontato negli ultimi anni molte cause da parte dei consumatori e dei famigliari delle vittime, con conseguenti multe salate. In Canada, ad esempio, due grandi class action hanno portato alla condanna di British American Tabacco al pagamento di 8,3 miliardi di dollari. La società è ricorsa in appello, ma gli è stato comunque ordinato di iniziare a sborsare 573 milioni a titolo di risarcimento, nonostante il processo sia ancora in corso. La causa ha riguardato anche altri due produttori per una richiesta complessiva di 12,4 miliardi di dollari.
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