Usa e Cina si guardano sempre più in cagnesco quando parlano di dazi doganali. E i mercati iniziano a fare il conto dei possibili danni che si avrebbero con una guerra commerciale su larga scala. L’ultima mossa degli americani è stata quella di imporre tariffe sui beni provenienti dalla Cina, quantificabili in 50 miliardi di dollari. “La cifra, di per sè, non cambia molto a livello economico per i due paesi”, spiega l’ultimo China Diagnostic (il report trimestrale preparato dal China Economics Committee di Morningstar. “Tuttavia è un segnale preoccupante che indica come i rischi di una guerra commerciale siano aumentati”.
Una possibilità che viene presa molto sul serio dagli operatori e dalle istituzioni. Il Fondo monetario internazionale ha stimato che un’eventualità di questo tipo potrebbe costare mezzo punto percentuale al Pil globale. Al momento non è ancora chiaro se la reazione immediata di Pechino sarà quella di reagire in maniera aggressiva o di cercare di placare gli americani sedendosi attorno a un tavolo per trattare. “Nel lungo periodo, però, secondo noi metterà in campo alcune misure di ritorsione”, spiega il report. “Le decisioni americane sulle tariffe sono un sistema per difendere le proprietà intellettuali che molte volte i cinesi hanno violato. Tuttavia sarebbe preferibile una strategia coordinata insieme ad altri paesi che avrebbe il vantaggio di creare una maggiore pressione sulla Cina”.
Perdono tutti. Ma Pechino di più
Se il tono dello scontro si alzasse tutti avrebbero da perdere, anche se in minura diversa. “Una guerra commerciale totale diminuirebbe la capacità di spesa e la ricchezza dei consumatori americani. Ma la stabilità economica degli Usa resterebbe comunque intatta”, spiega lo studio. “Potrebbe essere disastrosa, invece, per la Cina vista la sua dipendenza dal surplus commerciale che resta un elemento fondamentale dellla domanda dei suoi beni. In passato poteva stimolare la crescita dando benefici fiscali alle famiglie e alle imprese locali. Oggi, visto l’alto livello del debito, non se lo può più permettere”. La guerra commerciale potrebbe portare il Pil cinese a tassi di crescita inferiori al 5%. “Un’eventualità difficile da prendere in considerazione, anche dal punto di vista politico, in un paese abituato a correre a ritmi molto più veloci”, dice lo studio.
La Cina non si può permettere un rallentamento dei commerci
“Il paese ha dalla sua, però, la forte leadership del presidente Xi Jinping che, già in passato, ha dimostrato di preferire toni concilianti” continua il report. “Questo non vuol dire che le scelte dell’amministrazione Trump non saranno attentamente studiate. E se Pechino dovesse decidere che non ha troppo da perdere allora si potrebbe arrivare a un’escalation”.
I fondi rallentano
I gestori di fondi, intanto, preferiscono la prudenza. Gli strumenti raccolti nella categoria Morningstar China equity negli ultimi tre mesi (chiusi a luglio) hanno perso quasi il 3% (in euro).
Fra gli strumenti con analyst rating postivo quello che è riuscito a contenere meglio le perdite nel periodo è stato UBS (Lux) EF China Oppo(USD) P USD acc (Bronze) che ha ceduto poco più dell’1%. “Il gestore, Bin Shi, ha applicato il suo processo di investimento con regolarità dal 2010 e ha avuto risultati impressionanti in diversi cicli di mercato”, spiega Claire Liang, fund analyst di Morningstra in un report del 4 maggio 2018. “Il processo di investimento inizia quando il manager identifica i settori che possono crescere e che non sono adeguatamente rappresentati nei benchmark. Il suo team a quel punto fa le ricerche fondamentali per trovare le società che abbiano un business model verificato, forti flussi di cassa, buona trasparenza di gestione e valutazioni che non hanno ancora espresso il potenziale di crescita nel lungo periodo. Shi ha la possibilità di gestire attivamente la quota di liquidità del fondo se ritiene che la situazione si stia surriscaldando e l’ha utilizzata durante il crollo dei mercati del 2015 quando l’ha portata 16,72%”.
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