Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. La famosa citazione de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa si potrebbe applicare al mondo finanziario post-Lehman. La crisi del 2008 è stata in ultima analisi determinata dall’avidità che ha portato a posizioni caratterizzate da un’eccessiva leva finanziaria su debiti di scarsa qualità. Dieci anni dopo, (ri)scopriamo che le vecchie abitudini sono dure a morire.
La questione centrale resta, infatti, l’utilizzo della leva finanziaria nell’economia. L’indebitamento è diminuito in alcuni paesi e settori (come, ovviamente, il real estate), ma in generale il livello di tassi estremamente basso e l’intervento pubblico hanno portato a un aumento generalizzato della leva economica. Secondo l’ultimo Global Debt Monitor dell’Institute of International Finance, il debito aggregato è infatti passato in dieci anni da 173 a 247 mila miliardi di dollari, circa il 318% del Pil globale (era al 283% nel 2008).
Inoltre, “gli investitori alla ricerca di rendimenti si sono lanciati su strategie difficilmente in grado di fornire la liquidità necessaria per la prossima crisi (ad esempio il credito alternativo). Peggio ancora, gli operatori non stanno prezzando un evento del genere”, afferma in una nota Jerome Teiletche, Head of Cross Asset Solutions di Unigestion.
Un po’ di storia
Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers, una banca d’affari di New York con oltre 150 anni di storia, chiedeva ufficialmente di avvalersi del chapter 11 del Bankruptcy Code, la procedura fallimentare statunitense. La banca non poteva far fronte ai debiti e alle passività contratte sopratuttto nel settore dei mutui subprime. Quel giorno divenne chiaro all’intero mondo finanziario che i problemi derivanti da questi “mutui spazzatura” sarebbero diventati da lì a poco molto seri per tutti quanti. E così fu.
In questi ultimi dieci anni, si sono adottate misure volte a combattere le due principali cause della crisi del 2008, cioè una regolamentazione troppo debole e una cultura finanziaria eccessivamente propensa al rischio. Alcune delle tappe fondamentali di questo percorso comprendono il Dodd Frank Act del 2010, che ha dato alla Federal Reserve nuovi poteri e competenze di controllo sulle banche statunitensi (ma che è stato sensibilmente alleggerito dall’amministrazione Trump pochi mesi fa, esonerando di fatto le banche di piccole e medie dimensioni dai controlli e requisiti più severi), le regole di Basilea III, sempre nel 2010, che hanno costretto le banche a livello mondiale ad adottare severi requisiti patrimoniali e di liquidità, e i due round della MIFID in Europa. Senza dimenticare l’ambizioso progetto di un’unione bancaria nel Vecchio continente, che ha portato alla creazione della European Banking Authority nel 2011.
Passi in avanti e rally di mercato
Indubbiamente, la regolamentazione ha fatto passi in avanti un po’ dappertutto, in particolare nel campo della vulnerabilità delle banche. Mentre il rischio di concentrazione tra le principali banche globali è in realtà cresciuto dalla crisi, quello di leva finanziaria e derivante dall’attività di trading è diminuito. Inoltre, i coefficienti patrimoniali sono in miglioramento. I grandi fallimenti bancari restano un rischio, in particolare nella periferia europea e nei mercati emergenti, ma il sistema nel suo complesso risulta meno vulnerabile al contagio nella prossima crisi di tipo Lehman.
D’altronde, i mercati azionari mondiali hanno vissuto un decennio più che positivo dallo scoppio della crisi, con l’indice Morningstar Global Markets NR balzato del 157,8% negli ultimi dieci anni (dati in euro al 20 settembre 2018). Il grafico sottostante, invece, mostra l’evoluzione dello stesso indice a 15 anni (+221% di performance, crisi del 2008 inclusa).
Fonte: Morningstar Direct
Tuttavia, l’ultimo decennio ha vissuto momenti molto delicati. A seguito dalla crisi finanziaria del 2008, gli investitori hanno dovuto affrontare la crisi del debito europeo, un terremoto giapponese, un rallentamento della crescita delle principali economie mondiali e, più recentemente, le minacce protezionistiche del presidente Trump con conseguente guerra commerciale tra Usa e Cina. Insomma, se non fosse stato per il forte sostegno da parte delle principali banche centrali, mai come in questi ultimi anni protagoniste assolute dei mercati, oggi l'economia mondiale potrebbe trovarsi in una situazione completamente diversa.
Il sistema è ancora fragile
Ma questo non ha eliminato i rischi, anzi. Con l’eccezione della Federal Reserve, le altre principali banche centrali mantengono una politica ultra-accomodante. Di conseguenza, i bilanci si sono gonfiati alla cifra di 15 mila miliardi di dollari, con quasi 8 mila miliardi di titoli di Stato a rendimento negativo, riducendo di molto la potenza di fuoco necessaria per contrastare la prossima recessione o crisi. Se da un lato le banche private hanno incrementato la loro capacità di assorbire le perdite, le banche centrali hanno certamente meno potere per prevenirle.
Sono diversi i fattori che potrebbero innescare la prossima crisi finanziaria. L'aumento delle pressioni inflazionistiche potrebbe portare a una politica monetaria più restrittiva, incidendo sul segmento obbligazionario, ma anche su asset meno liquidi, senza dimenticare i problemi economici nei mercati emergenti e la guerra commerciale in corso tra Washington e Pechino.
“E quindi?”, verrebbe da chiedersi a questo punto. Nessuno ha la palla di cristallo, ma imparare dal passato è fondamentale, nella vita come negli investimenti. Clicca qui per leggere A lezione dai fratelli Lehman.
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