“Il cambiamento climatico è la sfida chiave del nostro tempo. La nostra generazione è la prima a sperimentare il rapido aumento delle temperature in tutto il mondo e probabilmente l'ultima che effettivamente possa combattere l’imminente crisi climatica globale”. Inizia con queste parole la dichiarazione congiunta di 16 capi di Stato e di governo europei (firmata per l’Italia dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) per chiedere che durante la conferenza dell’Onu sul cambiamento climatico (COP24), tenutasi in Polonia lo scorso dicembre, venissero adottate “norme operative dettagliate e linee guida che rendano operativo l’accordo raggiunto a Parigi tre anni fa”.
Secondo l’ultimo rapporto della World Meteorological Organization (WMO), nel 2017 le concentrazioni medie di anidride carbonica a livello globale hanno raggiunto 405,5 parti per milione (erano 400,1 parti per milione nel 2015 e 403,3 nel 2016). Inoltre, secondo il National Climatic Data Center americano, nei primi sei mesi, il 2018 è stato il quarto anno più caldo di sempre dal 1880: la temperatura è aumentata di circa 1,06 gradi rispetto alla media dal 1880 al 1920.
Insomma, tutto lascia pensare che senza un rapido taglio delle emissioni di anidride carbonica e dei gas responsabili dell’effetto serra, i cambiamenti climatici avranno impatti sempre più distruttivi e irreversibili. Il che si riflette, oltra che sulla natura e sulla salute degli esseri viventi, direttamente in perdite economiche. Secondo uno studio della Commissione europea sull'attuazione della strategia dell'Ue di adattamento ai cambiamenti climatici, “le perdite economiche registrate in Europa nel periodo 1980-2016 provocate da fenomeni meteorologici e altri eventi estremi legati al clima hanno superato i 436 miliardi di euro”. L’Italia è il secondo paese più penalizzato dopo la Germania. Si stima che i danni si decuplicheranno entro la fine del secolo se non verranno intraprese azioni di contrasto.
Portafogli sempre più “decarbonizzati”
La finanza - e più nello specifico le scelte degli investitori - possono avere un impatto molto importante su queste tematiche. Sempre più portafogli, infatti, si dimostrano sensibili ai criteri ESG (ambientali, sociali e di governance). Per chi si vuole concentrare sulla lotta al cambiamento climatico la parte preponderante riguarda la “E” (environmental, ambientale). Ancora più specifici, poi, gli indicatori low carbon (basso carbone), un insieme di parametri che stimano le emissioni di CO2 del proprio portafoglio e come le aziende stiano gestendo i rischi derivanti dalla transizione verso un’economia più pulita.
D’altronde, le opportunità non mancano. Gli investimenti globali in fonti di energia pulita sono stimati a fine 2018 a circa 230 miliardi di dollari (fonte: Global Renewable Energy Outlook). I tre principali mercati energetici del mondo (Cina, Usa e Brasile) sono in piena corsa verso la conversione energetica con ambiziosi piani che prevedono un mix di incentivi statali e investimenti privati. In Europa, Spagna e Germania sono i paesi più virtuosi da questo punto di vista, mentre la Francia sta lentamente abbandonando il nucleare sotto la spinta del gruppo EDF che vuole raddoppiare la produzione di energia pulita entro il 2030.
La carica dei fondi green
Gli investitori italiani interessati a rendere la propria asset allocation un po’ più verde possono scegliere tra una ventina di fondi attivi esposti al settore delle energie alternative o dell’ecologia. La differenza tra queste due categorie Morningstar sta nel fatto che i comparti appartenenti alla prima sono focalizzati al 100% in aziende attive nello sviluppo di fonti di energia rinnovabili, mentre nella seconda rientrano i fondi che investono in società specializzate in prodotti e servizi per un ambiente più pulito; oltre ai produttori di rinnovabili, quindi, possiamo trovare anche aziende attive nei sistemi per il controllo dell’inquinamento, il trattamento delle acque e l’efficienza energetica.
Un rapido sguardo ai flussi, ci suggerisce che gli investitori europei hanno preferito negli ultimi anni quest’ultima categoria alla prima, probabilmente a causa della maggiore diversificazione derivante dai diversi ambiti di attività. Senza contare i prezzi in calo, soprattutto nel settore fotovoltaico.
Fonte: Morningstar Direct
Fonte: Morningstar Direct
Dal punto di vista della sostenibilità ambientale e del rischio carbone, invece, è bene sottolineare che questo gruppo di fondi presentano comunque caratteristiche diverse. Nonostante l’obiettivo d’investimento dichiarato, infatti, non sempre questi comparti riescono a battere il mercato globale (rappresentato qui dall’indice Morningstar Global Markets NR) in termini di sostenibilità, e, cosa ancora più sorprendente, neppure in termini di environmental score o di carbon risk score.
In questo senso, il punteggio ambientale in media meno elevato (cosi come il rischio carbone in media più alto) della categoria azionari settore energie alternative si spiega per una maggiore esposizione alle fonti fossili delle aziende in portafoglio dei fondi presenti, quello che Morningstar indica come il fossil fuel involvement (pari in media all’11,80 rispetto al 3,87 della categoria azionari settore ecologia).
Più in generale, questi fondi possono essere molto diversi tra loro per esposizione geografica (si va ad esempio dal Parvest Green Tiger Classic, esposto ai mercati emergenti asiatici per il 48% dei suoi attivi, all’Amundi Global Ecology interamente investito in aziende dei mercati sviluppati) o per rapporto rischio/rendimento (la deviazione standard segnata nel 2018 dall’insieme di questi comparti oscilla tra il 9,5 del Mirova Europe Environmental Equity Fund e il 16,8 del RobecoSAM Smart Energy Fund).
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